Siamo abituati, ormai, a parlare di odio e violenza, che sul web – soprattutto grazie all’avvento dei social – sono sempre più presenti in tutte le forme, multimediali e verbali. Anche in virtù di questo, Amnesty International Italia ha dato vita al progetto di contrasto ai discorsi d’odio, istituendo la Task Force Hate Speech. Di questo e di altro abbiamo parlato con Maria Rosa Sora, team leader della task force.
L’intervista a Maria Rosa Sora, attivista del gruppo “Task Force”, che monitora l’Hate Speech sul web
Com’è nato il progetto?
«Io sono entrata a progetto già avviato, nel novembre 2017. Il progetto pilota è partito nel gennaio del 2016 con un gruppo di 13 persone; oggi, a maggio 2019, siamo 160. Si tratta di un progetto che mi ha coinvolto, soddisfacendo le mie esigenze, dato che mi rendevo conto di quello che stava succedendo online. I toni erano violenti, pieni di odio, e veicolavano dei contenuti spesso infondati. In situazioni simili, magari un singolo vuole intervenire, ma si sente impotente e non protetto. Questo progetto è servito a trovare una soluzione a ciò. Io ho trovato il bando online. Il bando è aperto a tutti: attivisti di Amnesty e non. L’obiettivo è quello di combattere i discorsi d’odio online. Come singolo, ho trovato tutto quello di cui avevo bisogno: un gruppo con cui collaborare e una struttura solida alle spalle.»
Negli anni, è cambiato qualcosa riguardo gli obiettivi?
«La Task Force Hate Speech sta ampliando il numero degli attivisti, come le ho detto. Pertanto l’obiettivo è quello di un’azione sempre più ampia di contrasto ai discorsi d’odio online.»
Leggendo i dati del “Barometro dell’odio” (monitoraggio che Amnesty Italia effettua durante la campagna elettorale, attività diversa dalla Task Force Hate Speech), al centro di questi discorsi d’odio ci sono rom e migranti: da cosa è causato tutto questo accanimento?
«Probabilmente, dipende dal fatto che i gruppi citati vengono spesso presentati, durante la campagna elettorale, come responsabili di molti problemi che affliggono la maggioranza.»
Quindi si è portati a pensare che più diritti hanno le minoranze e meno ne abbiamo noi.
«Esatto, questo è il meccanismo su cui fanno leva molti discorsi politici. La task force si attiva online ogni giorno, in particolare seguiamo le pagine dei maggiori quotidiani nazionali e cerchiamo articoli riguardanti questi gruppi fragili: migranti e rifugiati, donne, LGBTI, islamofobia, rom o minoranze etniche e religiose, e poi la criminalizzazione della solidarietà. La nostra è un’attività di counter-speech, significa che rispondiamo a quei discorsi che sono d’odio o lo stanno per diventare.»
Dunque avete anche dei criteri per giudicare quando un discorso sta diventando d’odio?
«Un discorso diventa d’odio quando vengono minacciati i diritti di qualcun altro pensando che siano lesivi dei propri. La nostra è una proposta di un punto di vista differente, basato sulla difesa dei diritti umani. Quindi è un lavoro di debunking e verifica delle notizie; riportiamo dati da fonti attendibili e invitiamo le persone ad approfondire e a riflettere. Non è così raro, purtroppo, che a parole d’odio seguano crimini d’odio. Ecco perché ciò che facciamo è tanto importante.»
Le reazioni più comuni degli utenti quali sono?
«Dipende, molto spesso c’è un tentativo di argomentare le proprie tesi. Ma quando poi riusciamo a far valere le nostre, veniamo spesso insultati o addirittura gli interlocutori abbandonano il discorso. Per noi è molto importante quella che possiamo chiamare la “maggioranza silenziosa”, ossia i lettori o utenti social che leggono le conversazioni ma non intervengono. Lasciare traccia di un punto di vista diverso permette a chi legge di riflettere su quel punto di vista, soprattutto se è espresso in una maniera rispettosa dell’interlocutore. Ci poniamo infatti come obiettivo anche quello di alzare il livello della conversazione, rendendola più civile di quanto ora non sia.»
Quindi conta molto anche lo stile.
«Per la Task Force Hate Speech lo stile è una questione importante: vogliamo essere assertivi, nel senso che rispettiamo l’interlocutore ma affermiamo in modo chiaro le nostre opinioni. Come fa Amnesty nei suoi appelli. Quindi noi possiamo intervenire anche solo per mantenere le conversazioni ad un livello civile. Evitiamo, ad esempio, di utilizzare quei termini che oggi vanno di moda: fascista, razzista, pidiota, eccetera…»
Anche perché questi termini scatenano reazioni peggiori…
«Esatto. Inoltre, utilizzare uno stile di comunicazione pacifica fa sì che capiti che l’interlocutore, anche rimanendo della propria idea, ci dica: “Non succede spesso di trovare una persona con cui conversare in maniera civile. Grazie”. Questa è già una conquista, perché l’idea non è, appunto, di presentare le proprie opinioni come le uniche possibili, ma di offrire un altro punto di vista.»
Un punto di vista molto spesso oggettivo, visto che ci tenete a riportare dei dati attendibili.
«Infatti. Il problema è che c’è questa tendenza all’incredulità. Molti sono già indirizzati verso un tipo di idea… Per esempio, ultimamente sentivo la notizia di Avaaz, la ONG che ha segnalato a Facebook le pagine che diffondevano fake news. Ho visto delle reazioni incomprensibili, qualcuno parlava di presunte “ONG di Facebook”… Altri hanno addirittura pensato che Facebook fosse schierato politicamente. Cioè, non si crede più all’indipendenza e alla credibilità di soggetti che finora erano considerati autorevoli. Per questo è difficile, a volte, sezionare le varie parti dell’opinione, impostando un confronto costruttivo, perché si tende a considerare tutto un nemico da combattere.»
Leggendo il tweet di presentazione del progetto da parte di Amnesty, ho visto che anche lì sotto c’erano molte critiche. Alcuni dicevano addirittura che voi stavate formando un team per censurare le opinioni diverse dalle vostre. In realtà, il lavoro che fate non è quello di censura, ma di riportare i toni ad un livello più consono...
«Esatto: moderare prima di tutto i toni e poi smontare le fake news, ma anche portare avanti il discorso sui diritti, che spesso non vengono considerati. Ecco, questo io lo considero un regresso rispetto a quella che oggi consideriamo una società civile. L’utilizzo di linguaggi e toni molto violenti, che possiamo definire di hate speech conclamato (tipo: “Bruciamoli tutti”) mi sembrano davvero la manifestazione di un regresso di civiltà. Noi segnaliamo quei commenti che sono al di là dell’accettabile, anche se a volte il concetto di “accettabile” nostro e di Facebook diverge. L’ideale sarebbe se questi standard diventassero più restrittivi.»
Soprattutto di questi tempi…
«Sì, anche se ultimamente i social stanno diventando più aperti in questo senso. Ad esempio, Facebook ti dà la possibilità di segnalare il contenuto e, se il primo tentativo fosse respinto, di risegnalarlo, con la possibilità che la seconda richiesta venga presa in considerazione. Ci sono anche casi di utenti che vengono bannati dai social per qualche giorno per il contenuto dei loro post, e questo fa credere ad alcuni che non ci sia libertà di espressione… Succede anche che Facebook contatti chi si rende autore di contenuti di odio simili, chiedendogli di spiegarsi meglio. Questo l’ho trovato educativo.»
Visto che si parla di libertà di espressione, negli ultimi giorni si è letto che “il fascismo non è un’opinione”.
«Io risponderei ad un argomento simile facendo sempre un discorso sui diritti. Il fascismo non è solo un momento storico, ma un’ideologia, una mentalità. E nel momento in cui una mentalità mette in discussione i diritti umani di ognuno, non va più bene. Noi non siamo schierati politicamente: i nostri discorsi sono sempre in difesa dei diritti umani, sanciti dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, sottoscritta da moltissimi Stati ma spesso disattesa.»
Secondo lei, questi discorsi d’odio di cui abbiamo parlato hanno una correlazione con le intenzioni di voto di chi li produce?
«Purtroppo (ride, ndr)… Alla fine del progetto di monitoraggio sulla campagna elettorale, Amnesty presenta sempre i risultati. Con le ultime politiche, per esempio, sono stati resi pubblici i politici che più utilizzano questi argomenti di odio nei loro discorsi. Se poi gli utenti utilizzano questi argomenti allo stesso modo, risulta semplice associare il tipo di visione…»
E allora, in che modo la politica potrebbe intervenire per diminuire questo fenomeno d’odio?
«Innanzitutto, non utilizzandolo come propria modalità comunicativa. L’idea che i diritti di un altro ledano i miei non andrebbe strumentalizzata, modellando in quel senso il sentimento dell’elettorato. Proprio questo scatena i discorsi d’odio. Noi ci auguriamo che lo stile che portiamo avanti diventi contagioso non solo sui social, ma anche nel mondo reale: per la pace, le parole sono importanti.»
Intervista a cura di Samuel Giuliani