Torniamo dalle parti della Groenlandia, quella che Trump voleva comprare giusto un mese fa. E torniamo tra i ghiacci dell’Artico, che stiamo provando a raccontare più da vicino perché è un tema che ci riguarda quanto mai tutti, e al di là dell’ormai nota fusione dei ghiacci perenni della banchisa artica.
E’ nel mar Glaciale, estrema periferia del Mondo e della storia, che si consuma il più tragico paradosso della modernità: la zona del mondo che più sta pagando un prezzo altissimo per il global warming – vedi l’arretramento del pack, qui un ultimo recente studio su Nature – si trova ora al centro di enormi interessi di potere ed economici, proprio grazie ai cambiamenti climatici. La zona che secondo le stime è la più ricca di idrocarburi, minerali e terre rare al Mondo, è ora sempre più accessibile proprio grazie all’effetto serra dovuto al consumo di combustibili fossili. Le conseguenze del global warming non saranno puramente di natura fisica, ma soprattutto geopolitica. A qualcuno piace caldo.
Torniamo alle estreme latitudini per raccontare, stavolta, una storia un po’ curiosa e allo stesso tempo emblematica, quella dell’isola Hans. Curiosa perché non capita tutti i giorni di vedere una contesa diplomatica a colpi di superalcolici. Emblematica – è presto detto – perché questo sperduto e lontano isolotto ci ricorda, in miniatura e in maniera un po’ sarcastica, gli interessi in gioco nell’Artico e la totale impreparazione del diritto internazionale sul tema. Ci dà la misura del territorio, ideale, da recuperare. Di chi è, davvero, l’Artico? Di chi sono le riserve di idrocarburi, i minerali, le rotte commerciali che si aprono con lo scioglimenti dei ghiacci?
L’Artico a colpi di brandy.
L’isola Hans, in realtà, si fa pure fatica a definirla isola. Con un’estensione di 1,3 km² e da sempre disabitata, è un bell’isolotto giusto al centro del canale Kennedy, che divide l’isola Ellesmere (l’isola più settentrionale del Canada) dalla ben più grande Groenlandia, possedimento danese. Nord del nord del Mondo, che si fa anche solo fatica a immaginarlo. Lo stretto canale, lungo 130 km e con una larghezza che varia tra i 24 e i 32 km, separa la Baia di Buffin, a sud, dal mare di Lincoln, all’estremo nord e non distante dal Polo. In mezzo, la frontiera internazionale tra Canada e Danimarca (sempre via Groenlandia). Nomi e luoghi che rimandano più alle gloriose esplorazioni dei secoli scorsi alla ricerca del Passaggio a Nord-Ovest che a contese internazionali. E nel canale, del resto, ci sono altre due isole, l’isola Franklin e l’isola Crozier, entrambe danesi.
La storia della contesa per l’isola Hans risale al 1973, quando i due Stati rivieraschi siglarono un trattato per delimitare ante litteram (prima ancora della firma della Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare, nel 1982) l’estensione del fondale oceanico, ovvero della piattaforma continentale. Con ciò si divisero attentamente anche le rispettive zone di pesca, in acque pescosissime che, all’epoca, erano l’unica cosa che davvero poteva interessare. Nel trattato, manco a dirlo, ci si scordò proprio l’isola Hans, che non era nemmeno nominata: il confine si interrompeva nel tratto di mare a sud dell’isolotto e riprendeva più a nord, non appena terminava la terraferma. Non fu certo una reale dimenticanza, ma banalmente un mancato accordo, che però ci dà la giusta misura di quanto poco valesse la terra a quelle latitudini. L’isola era contesa sia da Ottawa che da Copenaghen, e si preferì rimandare la questione.
La disputa si accende, però, dopo poco più di un decennio, nel 1984, quando l’allora ministro danese agli affari groenlandesi Tom Høyem visitò Hans island, piantandovi l’immancabile bandiera danese e lasciandovi, quale regalo agli amici canadesi con una buona dose d’ironia, un biglietto con la scritta “Benvenuti su un’isola danese!” e una bottiglia di un buon brandy, ovviamente direttamente da Copenaghen. Non era che l’inizio della contesa dei liquori. Come riporta l’ambasciatore danese Peter Taksøe-Jensen, all’epoca all’ONU, è da allora che si è consolidata la consuetudine, per i militari di entrambi i paesi, di lasciare una bottiglia del liquore nazionale ogni qual volta che si accingevano a visitare l’isola per issarvi il proprio vessillo: un whisky Canadian Club per i nordamericani e uno Snaps per gli europei.
Al di là del brandy, il Climate Change.
La contesa dei liquori è continuata almeno fino al 2005, quando c’è stata una prima, parziale, svolta diplomatica: il tutto cominciò l’anno precedente, quando nel Parlamento canadese si discusse di un incremento delle spese per la difesa connesse proprio con Hans island. La secca replica danese e il successivo dibattito diplomatico portarono nuovamente i militari canadesi sull’isola, il 13 luglio del 2005, con tanto di ministro della Difesa Bill Graham al seguito: a seguito della forte tensione che ne scaturì, i due paesi si risolsero a intavolare una discussione per trovare una soluzione condivisa e nel 2012 si è proposto di porre l’isola sotto una giurisdizione condivisa, senza però arrivare ad un accordo, con lo stallo che perdura fino ad oggi.
Resta da capire la ragione del riaccendersi delle tensioni, che si può riassumere in due paroline e un banale concetto che resta sullo sfondo di questa, come di tante vicende dell’Artico: il Global Warming. Il canale Kennedy, così come il passaggio a Nord-Ovest (dove pure vi è una disputa tra Usa a Canada), è sempre più accessibile alle navi e si calcola che in tutta la regione quanto meno aumenteranno ampiamente i giorni annuali di navigabilità. Ciò significa maggiore possibilità di sfruttamento degli idrocarburi, che sono stati trovati anche lungo il tratto di mare prossimo alla costa dell’isola Hans. Danimarca e Canada, come ovviamente gli USA, sono tutti membri della NATO e la possibilità di un conflitto è prossima allo zero.
Ciò che desta maggiore preoccupazione, e che dovrebbe interrogarci tutti, sono le intromissioni delle grandi compagnie minerarie in Groenlandia, con il governo locale di Nuuk che non ha buoni rapporti con il regno danese, anzi spinge per l’indipendenza e intanto affida pesanti concessioni minerarie alla Cina, o all’australiana GME: per ora terre rare e uranio, con rischi ambientali altissimi. Sullo sfondo, la paura per l’attività russa sull’altro fronte marittimo, ovvero il passaggio a Nord-Est. In questo sottile gioco ci chiediamo, di nuovo, di chi è l’Artico? La comunità internazionale può tacere nel fermare il disgelo della banchisa artica, permettendo le sempre più pesanti intromissioni degli Stati in un’area di vitale importanza per la stessa vita umana sulla Terra?
Antonio Acernese