“Era de maggio” quando nasce a Napoli Eduardo De Filippo, il drammaturgo, l’attore, il regista, il poeta che ha maggiormente segnato il panorama novecentesco e non solo. Figlio d’arte, sebbene illegittimo, era infatti figlio di Eduardo Scarpetta e Luisa De Filippo, cresce in un clima bellico, tra povertà, fame e miseria. Eduardo accoglie sotto il suo sguardo, oltre che nel suo vissuto, questo variegato panorama di storie che riesce a tramutare in arte, drammatica e poetica.
Figlio d’arte, fratello d’arte, nipote d’arte, insomma la sua è davvero stata, e continua ad essere, una famiglia simbolo nel panorama teatrale napoletano, che ha saputo arricchire l’arte teatrale di nuove immagini, di nuove scene, di nuovi temi, divenuti poi di ispirazioni per i successivi fruitori del genere.
Forse meno approfondita, ma di ugual spessore è la poesia di Eduardo De Filippo, che spesso si intreccia con il suo teatro, portando avanti i temi principali voluti dall’autore: la famiglia, l’amore, la Napoli popolare e folkloristica. C’è di più, Eduardo stesso ha dichiarato quanto la poesia gli servisse proprio per continuare il suo teatro, dice infatti: “Dopo aver scritto poesie giovanili, come fanno più o meno tutti i ragazzi, questa attività divenne per me un aiuto durante la stesura delle mie opere teatrali. Mi succedeva, a volte, riscrivendo una commedia, d’impuntarmi su una situazione da sviluppare, in modo da poterla agganciare più avanti a un’altra, e allora, messo da parte il copione, per non alzarmi dal tavolino con un problema irrisolto, il che avrebbe significato non aver più voglia di riprendere il lavoro per chissà quanto tempo, mi mettevo davanti un foglio bianco e buttavo giù versi che avessero attinenza con l’argomento e i personaggi del lavoro interrotto”. Dunque, la poesia, è per Eduardo, un ulteriore approccio creativo per analizzare temi e personaggi già incontrati nel suo teatro, ma con un’immersione maggiore nella psiche, fino ad affrontare questioni esistenziali e profonde. I temi sono complessi, ma le parole sono semplici, per tutti, comunicano quotidianità. Sono questioni esistenziali dunque, protagoniste delle sue poesie, con una tecnica da definire descrittivismo sentimentale, con contenuti intimi, che scatenano spesso inquietudine, turbamento.
É infatti dalle questioni semplici che Eduardo tira fuori riflessioni esistenziali, facendoci rendere conto di quanto sia banale considerare il semplice con superficialità, il quotidiano con banalità, ci insegna ad apprezzare il poco, il sufficiente, il niente. Protagonisti delle sue poesie sono le cose semplici, ma trattate in maniera magistrale e non semplicistica. Ad esempio, è celebre la sua poesia dedicata al Ragú napoletano. Ecco, il Ragú per noi è quotidianità, abitudine, a cui magari non diamo attenzione, ma Eduardo invece, ci presta il suo sguardo, e con le sue parole notiamo quanto prima non notavamo, magari tradizioni, famiglia, amore, riflessioni sul tempo e sulla vita. La poesia in questione è questa:
‘O rraù ca me piace a me
m’ ‘o ffaceva sulo mammà.
A che m’aggio spusato a te,
ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell”a miezo st’uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem’ appiccecà?
Tu che dice? Chest’è rraù?
E io m’a ‘o mmagno pè m’ ‘o mangià… M’ ‘a faje dicere na parola?
Chesta è carne c’ ‘a pummarola.
Qui tesse le lodi del Ragú che preparava la sua mamma, che mai nessuno potrà uguagliare, e dunque quasi prende in giro quello preparato da sua moglie, che mangia giusto perché deve mangiarlo, ma che probabilmente non è degno di essere chiamato Ragú ma solo “carne c’ ‘a pummarola”, cioè carne con il pomodoro.
Oltre alle poesie del genere appena mostrato, ricordiamo le più significative e ricordate, tra queste “Si t’o sapesse dicere”:
Ah… si putesse dicere
chello c’ ‘o core dice;
quanto sarria felice
si t’ ‘o sapesse dì!
E si putisse sèntere
chello c’ ‘o core sente,
dicisse: “Eternamente
voglio restà cu te! ”
Ma ‘o core sape scrivere?
‘O core è analfabeta,
è comm’a nu pùeta
ca nun sape cantà.
Se mbroglia… sposta ‘e vvirgule…
nu punto ammirativo…
mette nu congiuntivo
addò nun nce ‘adda stà…
E tu c’ ‘o staje a ssèntere
te mbruoglie appriess’ a isso,
comme succede spisso…
E addio Felicità!
L’autore qui mostra come la voce del cuore non sappia tradursi in parole e , Eduardo De Filippo, colui che con le parole ha raccontato, smosso, emozionato, criticato, lo sapeva bene. Il cuore è analfabeta, e non è in grado di riscattarsi. Questa poesia è un dialogo immaginario con la persona amata, dove le emozioni sono forti, travolgenti e inarrestabili, ma non si riesce ad esprimerle come si vorrebbe. Ci mostra insomma, quanto è reale l’incapacità di rivelare i propri sentimenti. Tant’è che spesso si arriva a quell’addio con cui poi conclude la poesia.Bisognerebbe imparare a dire ciò che il cuore dice, vivremmo con meno addii, e con più felicità.
La scelta di scrivere in napoletano è un grande gesto di amore da parte di Eduardo per la sua Napoli, per il suo dialetto, per il suo popolo. In particolare nelle sue poesie parliamo di un dialetto piccolo-borghese, comprensibile ai più e sempre molto semplice. É un dialetto differente da quello utilizzato a teatro, manca di verità potremmo dire, dato che nel teatro portava in scena la verità popolare.
Il dialetto rappresenta il bagaglio culturale per ognuno di noi, è il segno che apparteniamo a un luogo, a un tempo, a una comunità. Il dialetto ci permette di avere una storia, raccontabile senza essere raccontata, il dialetto ci permette di non essere anonimi. Anonimo sicuramente non lo era Eduardo De Filippo, e non lo sarebbe stato nemmeno se avesse scritto in italiano standard. Un genio è un genio.
Annamaria Biancardi