Abbiamo un problema con la disinformazione, e un altro con la Farnesina
Foto: artribune.com

L’infiammarsi della questione mediorientale, in seguito all’uccisione per mano americana del potentissimo generale iraniano Soleimani, e di quella libica hanno, ovviamente, riacceso i riflettori sul difficile momento che la politica estera italiana sta vivendo. Un via vai di ministri che, nel corso degli anni, non sono riusciti a restituire al nostro Paese quel ruolo di guida che fino alla fine degli anni ’80 caratterizzava le scelte messe in campo dalla Farnesina. Inoltre, come se non bastasse, anche i media nostrani ci hanno messo del loro attraverso il classico susseguirsi di tragicomiche notizie, rivelatesi poi false, che hanno avuto l’effetto di sottolineare come, ancora una volta, il mondo della disinformazione italiana stia vivendo un periodo di sostanziale declino.

L’importanza della Farnesina nella Prima Repubblica

Da diverso tempo la politica estera sembrerebbe non rientrare più nei piani di nessun governo. L’acuta crisi economica ha fortemente contribuito a ridurre in modo consistente l’interesse verso ciò che c’era al di fuori dei confini. Inoltre, a contribuire al lento declino del dicastero degli esteri c’è stato il deciso cambio di passo tra Prima e Seconda Repubblica. Ai tempi della DC il connubio tra Europa e Stati Uniti, con l’Italia come garante dei rapporti in funzione anti-comunista, rafforzò in modo deciso la posizione del nostro Paese il quale, nel frattempo, si era costruito una posizione di netto predominio all’interno del bacino del Mediterraneo, stringendo rapporti cordiali con i Paesi del Medio Oriente.

Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel 1989, il “pericolo” comunista svanì e l’importanza strategica del continente europeo perì assieme ad esso. Inoltre, lo scandalo di Mani Pulite e le conseguenti inchieste distolsero l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e dei governi dalle priorità in politica estera. Il vero problema, all’epoca, riguardava il ricambio generazionale all’interno della classe politica e soprattutto lo spaventoso debito pubblico che aveva inficiato le casse dello Stato, facendo sprofondare il Paese in una sostanziale paralisi economica. La politica estera venne accantonata in favore di un rilancio nazionale, soprattutto sotto i governi Berlusconi, nonostante il mondo della disinformazione voglia far credere il contrario.

Inoltre, lo scacchiere geopolitico internazionale mutò la propria forma. C’era una sola grande superpotenza, gli Stati Uniti. L’Unione Sovietica era implosa su ste stessa e il pericolo dell’avanzata del comunismo fino alle coste dell’oceano Atlantico era ormai un brutto ricordo. L’Europa aveva perso la sua importanza strategica poiché, assieme al colosso orientale, erano crollati anche i partiti comunisti delle singole nazioni. Il PCI, già verso la fine degli anni ’80, era entrato in una forte crisi che si concretizzerà pochi anni dopo la caduta del muro.

Il neo-atlantismo tutto italiano, il quale dava un colpo al cerchio e uno alla botte, attraverso una minuziosa strategia mirante all’azione su due differenti binari (ma paralleli), e cioè su quello dell’obbedienza statunitense e del dialogo con i Paesi del Medio Oriente del Terzo Mondo per ergersi a media potenza continentale, aveva lasciato spazio a una politica ben differente, quella dell’interesse nazionale.

La prima ad essere sacrificata per raggiungere tale obiettivo fu proprio la Farnesina. Nella Prima Repubblica molte scelte vennero ben ponderate in base al periodo storico in cui ci si trovava. L’Italia aveva giurato la sua appartenenza al blocco occidentale ma le laceranti divisioni interne richiedevano molto spesso l’uso di“guanti di velluto”. Ogni scelta aveva una forte valenza all’interno dei confini e una ricaduta sulla posizione internazionale dell’Italia. Il Paese si trovava proprio sulla “cortina di ferro” e in caso di guerra avrebbe dovuto rallentare il più possibile l’avanzata dell’Armata Rossa. Il tutto, però, senza rinunciare al dialogo con i Paesi non allineati o importanti dal punto di vista geopolitico.

Segnali di cambiamento potevano essere già colti negli anni precedenti Mani Pulite. Verso la fine degli anni ’70 alcuni cambiamenti della situazione politica interna influirono intensamente sui piani della Farnesina. Il progressivo avvicinamento del PCI alle posizioni dei partiti di governo aveva gettato le basi per un progetto di politica estera che potesse prescindere dalle preoccupazioni legate al fronte interno, contando sul peso del Partito Comunista.

Negli anni ’80 il PCI, pur accettando alcune scelte compiute dalla Farnesina in ambito estero, come l’appartenenza alla Comunità Europea e al Patto Atlantico, non riuscì a condividere molte delle decisioni attinenti alla sicurezza compiute dai governi in carica come nel caso dell’intervento nel Sinai (MFO) e lo schieramento degli euro-missili a Comiso.

Dalla metà degli anni ’80 si potè assistere a una progressiva trasformazione del sistema internazionale. La nuova distensione introdotta dalle relazioni bipolari tra Gorbaciov e Reagan portarono ad un progressivo smantellamento degli impianti ideologici e sociali su cui si era basata l’intera Guerra Fredda. La distensione non solo costrinse le sinistre europee a ripensare la loro identità, ma costringeva la stessa Farnesina a rivalutare la propria politica estera. I mutamenti eliminavano tutti quei punti di riferimento su cui ci si era basati fino a quel momento: atlantismo, integrazione europea, comunismo. L’esistenza di una minaccia aveva costituito uno dei principali motivi per cui l’Italia godeva della particolare attenzione degli Stati Uniti, i quali ad esempio finanziavano con ingenti somme tutti i partiti anti-comunisti. Venivano meno, insomma, non solo l’appoggio ideologico ma anche le “rendite di posizione”.

Anche il processo di integrazione europea venne colto di sorpresa. Dopo il fallimento dei progetti più ambiziosi, come quello federale sponsorizzato dall’Italia, in quegli anni c’era anche la forte frustrazione di aver completato il Mercato comune con l’Atto Unico del 1986. Anche in Europa, la posizione che avrebbe ricoperto l’Italia non era ancora ben definita.

Il lento declino

Gli anni ’90 confermarono l’impressione che la Farnesina fosse entrata in uno stato catatonico a causa della fine della politica dei due blocchi, accompagnata da una situazione interna in procinto di esplodere a causa dello scandalo di Tangentopoli. Questi mutamenti resero evidente la fragilità e l’incapacità di un intero sistema, imbottito da tangenti e che viveva sugli allori, a prendere delle decisioni importanti per non scomparire. Il Paese necessitava di riforme strutturali per poter partire e di chiarezza sulla scena internazionale.

Gli anni successivi segnarono la triste scomparsa del nostro Paese dalla scena internazionale, interessata solo da scandali, discese in campo e stragi di mafia. La vittoria di Silvio Berlusconi alle elezioni del 1994 segnò il contrappasso definitivo per un Paese che non aveva saputo reagire ai cambiamenti. La svolta del 1994 disintegrò le forze che avevano governato nella Prima Repubblica e la straripante vittoria nel maggio del 2001 registrò la definitiva diffidenza dei partner europei nei confronti di un governo sostenuto da un’ex forza fascista, Alleanza Nazionale, e dalla Lega Nord, un partito autonomista. Due partiti che non garantivano prospettive di integrazione a lungo termine. La disinformazione, evidentemente miope e di parte, colloca Berlusconi in cima alla lista dei fautori del processo di integrazione. Quello dell’ex Cavaliere fu in realtà più un tentativo di non rimanere isolato.

La necessità di erigere un altro blocco da contrapporre all’egemonia USA non fu colta dai governi di centrodestra, i quali preferirono assecondare il Presidente Bush in tutto e per tutto in Medio Oriente, assecondando guerre non volute dall’opinione pubblica e relegando a marginale il processo di costruzione europeo. L’Italia pagò cara la sua ambiguità, venendo addirittura rimpiazzata nel suo decennale ruolo di Paese interlocutore in Medio Oriente.

Il fiancheggiamento della politica di Bush, oltre a colpire la comune politica estera europea e indebolire la stessa forza di contrattazione dell’Italia, ha avuto come effetto di allontanare il nostro Paese dalla tradizionale adesione al multilateralismo. Una conseguenza pesante giunta proprio nel momento del confronto per la riforma delle Nazioni Unite e in particolare del Consiglio di sicurezza

L’ambiguità della politica italiana, la quale entrerà anche nell’immaginario comune come una caratteristica dell’italiano medio, fu una costante di tutti i governi della Seconda Repubblica, compresi quelli di centro-sinistra i quali preferiranno dedicarsi alle esigenze di politica interna, sacrificando quella estera. L’Italia rinuncerà ad essere protagonista in molti scenari, soprattutto in Africa e in Medio Oriente. Basti pensare alla guerra in Libia e allo smacco di Berlusconi al suo “amico” Gheddafi.

La crisi economica, sopraggiunta nel 2008 e acuitasi nel 2011, mise la parola fine alle speranze italiane di ritagliarsi un ruolo all’interno dello scenario geopolitico internazionale, caratterizzato da un martellante interventismo. Perseguendo una sostanziale politica tesa al pacifismo più ostinato, l’Italia si allontanò molto da quella che è in realtà la realpolitik, credendo di risolvere tutto con una stretta di mano. In questo contesto, a parziale discolpa, si colloca anche lo scarso peso dell’Unione Europea all’infuori dei propri confini anche a causa della brusca interruzione del processo di integrazione avutasi nel corso di questi anni.

La disinformazione italiana in politica estera

Da tutto ciò, emerge chiaramente che l’attribuire a Di Maio, attuale Ministro degli Esteri, tutti i mali della Farnesina è pura e semplice disinformazione, la stessa che alcuni giornali, in assenza di inviati all’estero e costretti a ricorrere a fonti non ufficiali per avere lo scoop, stanno da anni perseguendo.

Come nel caso del capo-delegazione nordcoreano dato in pasto ad animali feroci, anche in questi ultimi giorni il giornalismo italiano ha preso l’ennesimo granchio. Dalla nota trasmissione di approfondimento “Atlantide” che ha scambiato un videogioco per immagini “inedite” (“sembra un videogioco ma non lo è”, e invece lo era) al rapimento del Presidente della Libia riconosciuto dall’Onu, Al Serraj. Verrebbe da dire, parafrasando la frase del giornalista di La7, “sembra giornalismo ma è disinformazione”.

La disinformazione praticata da buona parte del giornalismo italiano, cartaceo e digitale, si va ad inserire all’interno di una ben più acuta crisi del giornalismo estero causata dalla scarsità di fondi e di inviati all’estero. Il primo movente è causa del secondo. In alcuni casi, però, incombono altre difficoltà come la conoscenza della lingua (nel caso cinese ad esempio) e l’evolversi sempre più pressante dei rotocalchi online. In assenza di notizie sul campo si è costretti a ricorrere a bufale o a scoop inediti, senza verifiche, facendo il più delle volte delle figure a dir poco barbine, facendo diminuire la fiducia nei confronti dell’intero giornalismo, afflitto già da numerosi problemi fra la disinformazione è come la più classica pioggia sul bagnato.

Insomma, il lento declino che interessa l’intero sistema Paese passa anche per il mondo del giornalismo “di disinformazione” e per il ruolo della Farnesina, ritenuta a più riprese come qualcosa di slegato dagli eventi interni e il più delle volte superfluo. Un grande errore.

Donatello D’Andrea

Classe 1997, lucano doc (non di Lucca), ha conseguito la laurea in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali e frequenta la magistrale in Sistemi di Governo alla Sapienza di Roma. Appassionato di storia, politica e attualità, scrive articoli e cura rubriche per alcune testate italiane e internazionali.

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