Con il termine “Gender Gap” si indica l’enorme divario economico e professionale tra uomini e donne causato da diversi fattori tra cui quelli sociali e/o culturali. Come rivelato da molteplici studi e rapporti pubblicati in questi ultimi anni, la disparità di genere non riguarda solo gli aspetti lavorativi e salariali. Nel 2021 una ricerca apparsa sul Journal for Industrial Ecology evidenziava che lo stile di vita degli uomini causa più emissioni climalteranti (+16%) rispetto a quello delle donne. Nonostante ciò, il genere femminile è molto più vulnerabile agli effetti dei cambiamenti climatici soprattutto, come affermato da Marina Andrijevic, analista di ricerca presso il Climate Analytics: «A causa di strutture socioculturali che privano le donne dell’accesso alle risorse, al processo decisionale, alle informazioni, e via dicendo». La lista dei fattori da cui scaturiscono le disparità di genere, riguardanti anche il campo ecologico, sembra non avere fine. Ai salari inferiori, alle difficoltà nell’ambito professionale e al climate change si aggiungono anche le conseguenze dell’inquinamento. Uno studio preliminare sugli effetti dei PFAS sulla fertilità femminile aggrava quello che potrebbe essere definito come “eco-price gender gap“, ovvero il divario tra il prezzo ambientale pagato dalle donne e quello pagato dagli uomini.
L’impatto ambientale e sanitario dei “Forever chemicals“
“Sostanze chimiche permanenti” o “forever chemicals“: sono i termini utilizzati per descrivere i PFAS, sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate ampiamente utilizzate nella produzione di numerosi oggetti e in molti processi industriali. Impermeabilizzati per tessuti, carta da forno, packaging per fast food, sacchetti patatine, cere per pavimenti, cosmetici. Prodotti di uso comune con i quali siamo costantemente a contatto.
Dei circa 12.000 PFAS ad oggi conosciuti, solo alcuni sono stati sottoposti a test approfonditi, fattore che determina una scarsa conoscenza delle pericolose caratteristiche di queste sostanze. Il perfluorottano sulfonato (PFOS) e l’acido perfluoroottanoico (PFOA), due dei numerosi composti facenti parte della famiglia dei PFAS, sono stati ampiamente analizzati e in seguito vietati o limitati dopo aver destato non poche preoccupazioni in Europa e negli Stati Uniti. La regolamentazione o il divieto di due PFAS su circa dodicimila rappresenta un primo passo, ma è del tutto insufficiente, soprattutto se si considera che, essendo indistruttibili, queste sostanze rimangono nell’ambiente in modo permanente. Non è un caso se per tali composti è stata creata un’apposita sigla utile a definirne le principali caratteristiche nocive. PBT è l’acronimo con il quale si indica la persistenza, la bioaccumulabilità e la tossicità dei PFAS, proprietà che rendono questi composti dannosi per la salute umana e potenzialmente pericolosi per l’ambiente.
Ad oggi, sono pochi gli studi che dimostrano i rischi ecotossicologici correlati alla massiccia presenza di PFAS nell’ambiente. Secondo un articolo pubblicato su Science Direct: «Le preoccupazioni sulla tossicità dei PFAS hanno portato a una regolamentazione rigorosa, ma la mancanza di informazioni dettagliate sulla loro ecotossicità ha portato all’attuazione di linee guida diverse nei diversi Paesi». Una carenza informativa che non riguarda l’aspetto sanitario. Le ricerche riguardanti l’impatto delle sostanze chimiche permanenti sulla salute umana abbondano ed evidenziano che un alta esposizione ai PFAS può tradursi in problemi sanitari non trascurabili, quali: aumento dei livelli di colesterolo, alterazioni degli enzimi epatici, piccole diminuzioni del peso alla nascita dei neonati, riduzione della risposta al vaccino nei bambini, aumento del rischio di ipertensione o preeclampsia nelle donne in gravidanza e crescita del rischio di cancro ai reni o ai testicoli.
PFAS, donne e fertilità
Tra i numerosi effetti nocivi sulla salute umana causati da una prolungata esposizione ai “forever chemicals“, destano nuove preoccupazioni i risultati dello studio “Exposure to perfluoroalkyl substances and women’s fertility outcomes in a Singaporean population-based preconception cohort“. Un team di ricercatori guidati da Nathan J. Cohen, del Dipartimento di Medicina Ambientale e Sanità Pubblica presso l’Icahn School of Medicine at Mount Sinai (USA), ha valutato le associazioni tra l’esposizione ai PFAS e la diminuzione del tasso di fertilità in 382 donne residenti a Singapore.
Il 3 aprile scorso l’OMS ha pubblicato il rapporto “Infertility Prevalence Estimates, 1990–2021” da cui emerge una realtà disarmante: su scala globale circa il 17,5% della popolazione adulta (1 su 6) soffre di infertilità. Una percentuale destinata a crescere se si considera che il nuovo studio sulla fertilità delle donne indica che l’elevata esposizione ai PFAS potrebbe comportare una riduzione del 40% delle possibilità di concepimento. I risultati preliminari di questo lavoro aprono la strada a ulteriori indagini sul collegamento tra l’esposizione ai PFAS e la fertilità. Una problematica che non riguarda solo le donne. Secondo uno studio pubblicato nell’ottobre del 2022 su Environmental Health Perspectives, nei figli nati da donne altamente esposte alle sostanze chimiche permanenti il numero di spermatozoi è inferiore alla media.
Per Damaskini Valvi, assistente professore all’Icahn Mount Sinai, «Interrompere la produzione di PFAS è l’unico modo che può aiutarci a evitare l’esposizione». Nel frattempo, considerato che queste sostanze entrano in contatto con l’essere umano, soprattutto a causa della loro presenza nell’acqua e nei contenitori alimentari, è possibile installare filtri idrici appositi e cercare di diminuire l’acquisto di prodotti utili al confezionamento contenenti PFAS.
Marco Pisano