Il detto recita “l’erba del vicino è sempre più verde” ed è a questo che prestiamo più attenzione quando scoppiano i conflitti. Da quattro mesi i riflettori mediatici sono puntati sull’invasione della Russia contro l’Ucraina, non si parla d’altro sui giornali e in televisione, come se le altre guerre attualmente attive fossero state interrotte per dare spazio a questo conflitto. Non è così: le guerre negli altri Stati continuano ma a noi sembra interessare relativamente poco. Martina Micciché, scienziata politica e fotoreporter, e Saverio Nichetti, fotoreporter, sono attivisti e creatori del progetto Always Ithaka e hanno risposto ad alcune domande sulle 39 guerre attualmente attive.
Cos’è un conflitto?
«Un conflitto di base è semplice da collocare, ha una definizione precisa che ruota attorno alla presenza di parti in contrasto, spesso e tendenzialmente violento. Ciò che però manca è una presa di coscienza sulle differenti modalità con cui si presenta e sulla convenienza dell’uso di questa definizione in alcune circostanze, atta a cancellare le dinamiche più problematiche. Ad esempio, parlare di invasione e conseguente conflitto pone l’accento sul verificarsi dell’apertura dell’ostilità bellica, ma definire conflitto atti di genocidio come quello che Israele sta compiendo in Palestina crea un falso parallelismo di intenti e modalità che, in questo caso, sono chiaramente sbilanciate in favore dello Stato israeliano, in termini di potenza, arsenale e supporto. E ancora, il conflitto viene estrapolato dal contesto bellico quando serve a giustificare una guerra, come nel caso della “guerra al terrorismo” degli Stati Uniti, interessati a definire un nemico per legittimare un’invasione e raccontarla come un conflitto a cui non si sono potuti sottrarre in nome della democrazia e della libertà».
Quando ci interessa e perché?
«I conflitti, sfortunatamente, ci interessano solo per gradi di prossimità. E non si tratta di una dimensione così estesa. La guerra in Ucraina spaventa perché prossima, immediatamente adiacente all’Europa, non tanto perché è una guerra ed è brutale e spaventosa in sè. Ciò che smuove l’occidente è la sua sfera di azione ed influenza, le minacce sono riconosciute tali solo quando potenzialmente in grado di intaccarne il benessere o, a voler essere molto diretti, snudarne gli interessi. Dopotutto, se davvero l’occidente temesse il terrorismo si occuperebbe di quello bianco e suprematista, decisamente più pervasivo e frequente di quello islamico».
Hai parlato nel tuo talk del Myanmar, cosa sta succedendo?
«Dal colpo di stato del (febbraio, ndr) 2021 con cui la giunta militare SAC ha preso il potere, la situazione in Myanmar è precipitata e le principali vittime sono state i civili. La SAC aveva agito a seguito delle elezioni che hanno visto trionfare la Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi, chiamando ai brogli elettorali, destituendo il partito eletto e accusando la leader di partito di corruzione. La giunta ha, e sta tuttora, reprimendo il dissenso popolare con violenze, torture, stupri e sequestri. La giunta è inoltre responsabile della persecuzione della comunità Rohingya, almeno 130.000 persone sono attualmente detenute in campi di concentramento nella zona dello Stato di Rakhine. Quello che sta succedendo è un atto di genocidio che passa sotto silenzio».
Hai inoltre nominato 39 conflitti attualmente attivi di cui nessuno parla, cosa vorreste le persone sapessero?
«Come detto, siamo educati, socialmente, ad osservare le guerre solo quanto queste sono percepibili come vicine, solo quando rischiano di destabilizzare l’interesse statale e personale, quando fanno paura. Questa è l’idea che abbiamo e che ci fa chiudere e arroccare nella nostra idea di Stato e confine, una dimensione di finta sicurezza in cui ci crogioliamo ignorando il resto. Questo non vuole essere un giudizio di valore nei confronti degli individui, ma del sistema che ci forma all’individualismo e alla discriminazione. Misuriamo le guerre con un canone novecentesco di nazioni che ufficialmente si scontrano, in modo da poter evitare il confronto con le dinamiche complesse dei conflitti interni e, soprattutto, non doverci misurare con le nostre responsabilità in merito».
Cosa intendi con “la nostra idea di Stato”?
«Lo Stato è una costruzione collettiva. Lo abbiamo creato per creare ordine, o perlomeno così ci insegna la morale hobbesiana: dallo Stato di natura in cui l’uomo era nemico di se stesso, ci siamo aggregati deponendo le armi e delegando sovranità in cambio di sicurezza. Questa visione è fortemente occidentale e statalista, ma soprattutto imperniata su una certa percezione di sicurezza. Gli Stati sono entità a cui è delegato il monopolio dell’uso della forza entro un certo confine, sono quindi basati sull’idea di proprietà, il che mostra quanto in realtà essi siano frutto di un interesse legato alla ricchezza e al controllo su di essa più che sulla sicurezza. Non tutte le persone all’interno degli Stati godono della medesima tutela, basti pensare alle donne – e alla cultura dello stupro incentivata dalla mentalità proprietarista dello Stato e delle sue leggi – la cui sicurezza è decisamente meno protetta rispetto a quella degli uomini, o ancora alle persone trans e alle persone razzializzate e/o discriminate in quanto musulmane. La sicurezza è una prerogativa di pochi, soprattutto perché i mezzi che dovrebbero garantirla sono imperniati sull’uso di una violenza troppo spesso orientata nei confronti di chi ha più bisogno di essere tutelato. Dico la “nostra idea di stato” perché il colonialismo ha cancellato intere modalità di costruzione sociale alternative. Basti pensare ai popoli incontattati e alle loro strutture di gestione della vita collettiva non necessariamente incentrate sul potere. Il colonialismo ha permesso alla cultura statalista, capitalista e patriarcale di non avere contraltari, semplicemente cancellandoli e soffocandoli vendendo una certa cultura come intrinsecamente migliore e superiore».
C’è qualche altro conflitto in particolare di cui vorreste che le persone sapessero di più?
«Sarebbe importante che la diffusione di notizie riportasse i conflitti in corso e non solo in concomitanza di eventi particolarmente efferati. Che si desse alle persone nozione di ciò che accade in Etiopia, in Congo, nel NOSO in Camerun. È sconcertante constatare che del conflitto in Yemen non si parli nonostante abbia causato almeno 377.000 morti, il cui 70% è costituito da bambini, e circa 4 milioni di sfollati. Ed è tremendo che non si consideri l’impatto della guerra in Ucraina sui conflitti già esistenti o nei paesi non immediatamente prossimi, come nel caso dello Sri Lanka. Sarebbe opportuno parlare anche dei conflitti intestini alimentati dalla criminalità organizzata che prospera grazie all’instabilità istituzionale. O ancora, è necessario che si parli di Haiti, Venezuela e Colombia, che non si dimentichino l’Afghanistan, lo Xinjiang, il Tibet e la Palestina».
Gaia Russo