In queste ore spopola sul web l’immagine del corazziere di pelle nera che era presente, quest’oggi al Quirinale in occasione della giornata della memoria contro il razzismo, ad accogliere tra gli altri Matteo Salvini. La foto è diventata ben presto virale, in un tripudio di esclamazioni ironiche e congratulazioni verso il Presidente Mattarella, considerato autore dello “scherzetto” ai danni del ministro dell’Interno.
In realtà, come spiega bene The Vision, il giovane corazziere adottato e cresciuto in Sicilia è entrato nell’Arma già tre anni fa, e presta ufficialmente servizio fin dal 5 giugno 2017, quando debuttò nel picchetto d’onore nella Festa dei Carabinieri. Una splendida storia di integrazione, la sua, ma non certo un’eclatante sorpresa nell’Italia civile, multietnica e umana.
Eppure, il popolo della rete e parte della stampa si sono fiondati sulla notizia fino al punto da farla diventare un caso mediatico, un risalto anziché un dettaglio, addirittura una sorta di tiro mancino giocato dal Presidente della Repubblica verso il ministro Salvini, le cui simpatie verso gli immigrati sono, com’è risaputo, piuttosto scarse.
C’è qualcosa di profondamente sbagliato in questa esaltazione comica della vicenda, nella plastica riproposizione di un’immagine come emblema dell’antirazzismo e dell’Italia “perbene”, quella che accoglie, che integra, che va avanti e che riesce. Anzitutto il corazziere, pur avendo origini brasiliane, ha vissuto qui fin da bambino, e dunque è italiano in tutto e per tutto. Il colore della pelle è assolutamente marginale nella sua storia a lieto fine, e metterlo in risalto fino al punto da viralizzare la sua presenza lì al Quirinale, dov’era giusto che fosse, ha il triste epilogo di sortire l’effetto contrario: credendo di canzonare i razzisti del Governo, ci siamo inconsciamente calati nella figura di razzisti di ritorno.
Proviamo per esempio a immaginare cosa possa aver pensato il giovane corazziere, che stava soltanto facendo il suo lavoro, nel veder circolare la sua foto ovunque a causa del suo colore “diverso”. Dipinto in un riquadro che non gli appartiene, raccontato in una narrazione che non gli compete, ficcato a forza nell’armatura di paladino dell’antirazzismo, lui che già da tre anni presta servizio per il Paese, il suo Paese, e non certo in quanto nero.
Con questa scriteriata ostentazione non si fa altro che il gioco di Salvini. Lui, del resto, nella sua discutibile ma non certo sprovveduta strategia politica ha messo in chiaro, fin da tempi non sospetti, che non nutre alcuna forma di disprezzo verso le persone di colore. A tal proposito giova ricordare, tanto per dirne una, che la Lega è stato il primo partito ad eleggere un senatore di origine africana (Toni Iwobi, per chi non lo sapesse).
Nessuna discriminazione epiteliale, insomma. Salvini infatti andrebbe definito per quello che è: non razzista, ma classista. Un servo del capitalismo come tutti gli altri. A lui non stanno sulle scatole i neri, ma i poveri. Se sei nero, ma ti chiami Balotelli o Koulibaly ed hai uno stipendio a sei zeri non c’è problema, sei il benvenuto. Se invece sei un poveraccio che non ha un pezzo di pane da mordere o una felpa della Pivert da indossare, se fuggi da miseria e fame e disperazione allora sì, sei un nemico da scacciare, da neutralizzare, da annichilire. È questo il sottile e subdolo intrigo psicologico che lo ha reso benvoluto dalle masse: far credere di difendere i portafogli degli italiani dall’assalto del ladro invasore.
Per cui no, non è un corazziere al Quirinale che farà cambiare idea al ministro, né una sprovveduta frenesia di giocare al tiro a bersaglio con una foto. Il primo passo verso un vero superamento del razzismo verrà compiuto solo quando smetteremo di inseguire la retorica dei puristi della razza e inizieremo a comportarci come se oggi, al Quirinale, ad accogliere Salvini, ci fosse stato un semplice corazziere. Punto.
Emanuele Tanzilli