Ecco le nostre #EvidenzeStrutturali verso la Giornata contro la Violenza sulle Donne.
A undici mesi di distanza dal precedente, un nuovo piano antiviolenza è pronto per essere attivato. Era il dicembre 2020, infatti, quando scadeva il Piano strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne, documento pensato per coordinare le politiche di contrasto alla violenza di genere. Un fenomeno, quest’ultimo, che proprio in Italia sembra ormai dilagare nella sua manifestazione più estrema: il femminicidio.
Al 14 novembre, le donne uccise per mano di un uomo sono 103. Una ogni tre giorni. E siccome nessuna occasione è superflua per precisare cosa si intende per femminicidio, vale la pena ricordare che il termine si impiega per indicare l’omicidio sistematico delle donne, esercitato in nome di una struttura ideologica di stampo patriarcale. Lo scopo è quello di perpetuare la subordinazione e annientare l’identità della vittima, attraverso l’assoggettamento fisico e psicologico, che si conclude appunto con la morte della donna stessa.
A fronte di una situazione tanto emergenziale, dunque, nessuna motivazione sembrerebbe sufficientemente valida a giustificare l’indicibile ritardo con cui è stato presentato il nuovo piano antiviolenza. Ma la tempistica, purtroppo, non è la sola criticità contenuta nel documento, valido per il triennio 2021-23.
Infatti – in una lettera aperta alla ministra per le Pari opportunità Elena Bonetti – l’associazione D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza fa notare come il documento manchi di coinvolgere proprio i centri antiviolenza presenti sul territorio. In particolare, secondo l’associazione, i Cav sono stati «consultati ma non ascoltati» alla luce del fatto che «i percorsi partecipati prevedono la condivisione di sostanza e il rispetto di regole di metodo che sono state disattese». In questo modo, non solo si svilisce il contributo di chi, nei fatti, quotidianamente fornisce assistenza alle donne vittime di violenza, ma si rischia di ridurre il ruolo dei Cav a meri centri di accoglienza, chiamati a intervenire esclusivamente in caso di situazioni di emergenza.
Eppure il loro contributo va ben oltre l’assistenza materiale. Solo l’anno scorso, per esempio, D.i.Re – di concerto con l’Unhcr – ha elaborato una serie di proposte strategiche per migliorare la risposta del sistema antiviolenza italiano ai bisogni specifici delle donne migranti richiedenti asilo e rifugiate. Altrettanto fondamentale è stato poi l’apporto fornito per rendere il nostro sistema più adeguato ai principi della Convenzione di Istanbul in materia di prevenzione e contrasto alla violenza contro le donne e a alla violenza domestica. Ed è proprio sulle linee guida stabilite all’interno della Convenzione che è stato modellato il piano antiviolenza. Prevenzione, protezione e punizione dei colpevoli, dunque, alla base del piano. Ma, accanto a queste tre fasi conosciute come strategia delle “3P”, quest’anno figura anche la fase di assistenza e quella di promozione.
Un’ulteriore novità è rappresentata dall’attivazione di percorsi di empowerment economico, finanziario, lavorativo e di autonomia abitativa. Implementati nella fase di protezione e sostegno, tali percorsi nascono con l’obiettivo di provare a contrastare una delle forme più infide di violenza esercitata a discapito delle donne, quella economica. Questa forma di prevaricazione – sebbene ampiamente sottovalutata – è in realtà estremamente diffusa, anche e soprattutto a causa di un tessuto sociale fortemente intriso di stereotipi sessisti. Le politiche di accesso al mondo del lavoro, infatti, essendo particolarmente sfavorevoli alla categoria femminile contribuiscono a rendere più complicato per una donna che subisce abusi allontanarsi dall’unica persona (il suo abuser) in grado di garantirle stabilità economica. Da qui l’introduzione, all’interno del nuovo piano antiviolenza, di norme specifiche sull’inserimento lavorativo delle donne vittime di violenza all’interno della contrattazione collettiva. O, ancora, l’introduzione di percorsi di formazione di eccellenza con la previsione di tirocini retribuiti vincolati all’inserimento lavorativo.
Queste, naturalmente, non sono che alcune delle novità presenti all’interno del piano. E se è ancora presto per poter stabilire se esse si riveleranno efficaci o se si trasformeranno nell’ennesimo fallimento dello Stato italiano nella lotta contro la violenza di genere, risulta quantomeno legittimo nutrire qualche dubbio su un piano antiviolenza che coinvolge in modo apparentemente solo formale i 164 Cav attivi sul territorio. E – come scriveva Marcela Lagarde nel 1997 – «le condizioni di femminicidio si hanno quando lo Stato (o qualche sua istituzione) non dà le sufficienti garanzie alle bambine e alle donne e non crea le condizioni di sicurezza che garantiscono le loro vite, nelle comunità, nelle case e negli ambiti lavorativi. A maggior ragione, quando le autorità non realizzano con efficienza le sue funzioni. Quando lo Stato è una parte strutturale del problema per il suo segno patriarcale e per la preservazione di quest’ordine, il femminicidio è un crimine di Stato».
Virgilia De Cicco