Il 27 marzo scorso, a Los Angeles, si è tenuta la 94ª edizione dei premi Oscar: ma non è dei film in gara che si parla. Con buone probabilità, infatti, questa cerimonia sarà ricordata più per quanto accaduto tra Will Smith e Chris Rock che per la premiazione in sé. Non, dunque, film o interpretazioni, ma la riproduzione (di cui non sentivamo il bisogno) delle logiche maschiliste. Da quella del possesso fino a quella del branco, tutte condensate nel giro di pochi istanti: quelli in cui Will Smith tira uno schiaffo in mondovisione a Chris Rock. A suscitare l’ira di Smith una battuta – tra l’altro abilista – sulla moglie Jada Pinkett Smith che, con i capelli rasati a zero causa alopecia, assumerebbe le sembianze di un soldato. Il presunto riferimento comico, per la precisione, è alla testa rasata di Demi Moore, nel film G.I. Jane del 1997. Di comico però c’è davvero ben poco. Di problematico, invece, l’intera vicenda.
A chi prende le parti di Chris Rock, alzando il vessillo del “non si può dire più niente, era solo una battuta”, andrebbe ricordato, anzitutto, che ironizzare sulle caratteristiche fisiche di una persona è legittimo (e divertente) quando a essere presa di mira non è la persona in sé e nemmeno la caratteristica di cui si sta ridendo – a maggior ragione se la stessa è diretta conseguenza di una malattia – ma il modo in cui la società la rappresenta. E poiché, si sa, il modo in cui la società rappresenta la bellezza è fortemente stigmatizzato e stigmatizzante, l’ennesima battuta su un corpo femminile che devia da quei canoni di perfezione estetica dettati – che sorpresa – dallo sguardo maschile, era davvero poco necessaria.
E a chi, invece, mostra solidarietà a Will Smith, issando questa volta il vessillo della cavalleria perché “certo, Smith ha sbagliato ma pur sempre per difendere sua moglie”, andrebbe fatto notare come, in realtà, il suo gesto ha poco a che vedere con Jada Pinkett Smith e molto più a che fare con le logiche della mascolinità performativa che da copione, giusto per restare in tema Oscar, impongono all’uomo di difendere la donna. O, meglio, la sua donna. La mascolinità tossica e performativa, infatti, è il risultato della proiezione di insane aspettative culturali sui maschi, la cui virilità viene ridotta all’esercizio bruto del potere fisico e del dominio. Con quello schiaffo, quindi, Smith ha tutelato più la sua identità di marito, capo famiglia e “vero uomo” che non quella di sua moglie che, anzi, è stata esclusa dalla vicenda, pur dovendone essere la reale protagonista.
Se le si fosse lasciato spazio di (re)agire, Pinkett Smith avrebbe potuto rispondere all’offesa ricevuta nel modo che più riteneva opportuno, ma invece è stata estromessa dalla scena. Ecco perché è legittimo pensare che il gesto di Will Smith sia stato un modo per salvaguardare la sua reputazione e ristabilire, appunto, i rapporti di potere e, perché no, pure quelli di possesso. La matrice del suo gesto, allora, non è poi così diversa da quella di chi usa violenza contro le donne o contro presunti avversari in amore. D’altra parte, anche la motivazione impiegata dall’attore per giustificare lo scatto d’ira è identica a quella di chi, per discolparsi da accuse di aggressione, sostiene che «l’amore fa fare cose folli».
Se quest’affermazione non fosse così grave ci si potrebbe azzardare a dire che Smith certo non merita un Oscar per l’originalità di ciò che ha detto. Quello dell’amore come giustificazione a un gesto di follia è, infatti, un cliché ben radicato. Un cliché che, tuttavia, ancora si fatica a riconoscere perché la narrazione mediatica della violenza di genere – ben lontana dall’inappuntabilità – contribuisce a normalizzare l’idea che l’amore possa giustificare la violenza. La gelosia la cultura del possesso. La virilità la sopraffazione delle donne, che perdendo ogni diritto all’autodeterminazione, si ritrovano a subire i soprusi degli aggressori quanto quelli dei presunti protettori.
Infine, a chi sostiene che quella andata in onda durante la notte degli Oscar sia stata poco più che una mera messinscena non c’è molto da ribattere. L’unica cosa che può dirsi con certezza è che si è persa l’ennesima occasione per riflettere sui codici sottesi alla cultura patriarcale e si è trasformato l’accaduto in uno sfoggio di machismo, neanche fossimo in un vecchio western o in un poema cavalleresco. Invece siamo nel 2022, gli uomini non indossano più cotte di maglia né vanno in giro a reclamare scalpi, ma ancora non capiscono che per difendere una donna basterebbe premurarsi che stia bene, lasciandole tempo e spazio per reagire, anziché aggredirne l’aggressore.
Virgilia De Cicco
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