Un problema di gran parte del giornalismo italiano è l’incapacità di parlare delle donne, riducendo ciò che scrivono ad un ammasso di stereotipi, romanticizzazione di violenze che non sono romantiche, la donna vittima non viene descritta come tale, i traguardi importanti in campo scientifico, sportivo e professionale non vedono il giusto riconoscimento. Da ciò ne scaturisce la legittimazione di stereotipi e pregiudizi tossici, a discapito di esse, che il lettorə considererà come normali e giusti.
Queste descrizioni sbagliate delle donne sono frutto di un sistema patriarcale che vige da sempre, all’interno del quale si nasce e da cui è difficile distaccarsi. Il patriarcato è un sistema dove sono gli uomini a detenere i posti di potere, mentre la donna è soggetta ad essi; questa differenza sessuale si trasforma in una differenza di ruoli che è la base della gerarchia: sui giornali quindi vedremo quasi sempre l’uomo dipinto bene.
Femminicidio
Uno dei casi in cui la narrazione dei fatti annienta maggiormente le donne sono relativi al femminicidio. Con la parola femminicidio ci si riferisce all’uccisione della donna in quanto tale, dove l’uccisione avviene per mano di un uomo e c’è una relazione tra la vittima e l’assassino. Si parla di femminicidio quando l’assassino uccide perché non sopporta le lusinghe che vengono indirizzate alla donna, per litigi, gelosia, vendetta, abbandono oppure per una rapina dove ci si aspetta che la donna non possa reagire in quanto più debole rispetto ad un uomo. Non tutti i casi però vengono presi in considerazione dalla cronaca, i giornali preferiscono notizie che vedono presenti il partner della vittima oppure l’amante, tutto il resto dei femminicidi non fanno notizia, per esempio le uccisioni delle sex workers sono inesistenti nella cronaca. Sulle testate dei giornali si trovano titoli come “Lo stalker gentile la perseguitava ma con mazzi di rose”.
In questo caso si attua una romanticizzazione dell’accaduto andando anche a giustificare lo stalker: «Nonostante non l’avesse mai aggredita, tuttavia, il fatto che quell’uomo di 4 anni più vecchio fosse una sorta di costante presenza nella sua vita nonostante la scelta di non frequentarlo più l’ha indotta a denunciarlo» sebbene non ci sia stata aggressione, da quanto viene riportato, non vuol dire che lo stalker non l’abbia aggredita attaccando il suo spazio personale e andando contro la sua volontà.
Un altro errore riportato dai giornali è il voler cercare a tutti i costi un movente per liberare l’assassino dalle accuse də lettorə dove solitamente è il comportamento femminile la causa del comportamento maschile, quindi si simpatizza per l’omicida e la vittima è colei che ha causato questa sofferenza insopportabile, non l’uomo che l’ha uccisa: «si erano separati un mese fa» e «in lacrime davanti ai carabinieri». Oppure il movente viene associato ad una patologia, si legge spesso «ho avuto un raptus» oppure “amore malato” per dimostrare che l’uccisione non è stata perché voluta ma per un atto di “improvvisa” follia.
Bisogna rispettare alcuni canoni per essere considerate “vittime”
Anche nelle sentenze per stupro o femminicidio, non manca il colpevolizzare la vittima e non trattarla come tale. Generalmente, gli aggressori hanno per il 25,6% un precedente penale, con un 6,2% di precedenti verso la vittima, la quale riscontra un 36,8% di violenze pregresse dall’aggressore. Le motivazioni che vengono registrate maggiormente sono sentimentali ed economici, ma non mancano all’elenco violenza sessuale, futili motivi e vendetta/punitivo. Al 7,1% c’è l’assoluzione dell’omicida, al 45,1% il carcere per 11-20 anni e all’11,5% l’ergastolo. Questo perché spesso la pena vine scontata anche analizzando come la donna si è comportata al momento dell’aggressione, se è «una donna disinvolta che aveva passivamente subito fino a quel momento» non c’è motivo per l’aggressore di scontare tanti anni in carcere.
Se hai raggiunto un risultato importante, non sarai “dottoressa” e non aspettarti di essere citata con nome e cognome
Le discriminazioni linguistiche sono un’altra caratteristica di un giornalismo ingiusto e poco attento: quando si leggono espressioni come “le scienziate mamme” oppure “gli angeli della ricerca”, il testo scaturisce un’immagine distorta della realtà e del messaggio che, invece, andrebbe comunicato. Così come l’utilizzo del maschile neutro per riferirsi ad una donna, dei titoli di qualifica solo per l’uomo al quale spetta il riconoscimento del titolo, oltre che del nome e cognome (a riconferma dell’autorevolezza), mentre alla donna resta soltanto un nome colloquiale che sminuisce il suo ruolo, il suo impegno e la sua professionalità.
I giornali possono rappresentare non solo lo specchio della realtà ma sono anche uno specchio su di essa e potrebbero mettere in evidenza quali sono gli errori che vengono rivolte alle donne linguisticamente e di rappresentazione che perpetuano una visione della donna figlia di una società patriarcale e violenta verso esse.
Gaia Russo