“Tutto è falso, ma per pochissimo”. Finisce così il romanzo “Gli Iperborei”, esordio alla scrittura di Pietro Castellitto.
Figlio d’arte da parte di madre e padre, Castellitto descrive la Roma della ricchezza e del disincanto, del fasto e del falso, del potere che si origina in “case che si muovono” e che da lì decide della città, ne determina gli equilibri e ne sconvolge gli assetti.
Sono figure particolari, gli Iperborei, sono quelli che vivono felici e, terminato il proprio tempo, stanchi della vita, per propria decisione, decidono di finirla. Senza traumi, senza distacchi.
Cosa bisogna chiedersi allora? Cosa aspettarsi da questo romanzo e da questa generazione ricca e annoiata, costantemente sull’orlo dell’abisso?
Leggere Gli Iperborei
Ha due dimensioni di lettura, Gli Iperborei, l’una spaventosamente simile e vicina all’altra. Sovrapponibile ma, anche questa volta, per pochissimo. Ha la dimensione dei personaggi, e quella dell’autore.
Castellitto scrive, e sembra quasi di vederlo, come Poldo, al pc o con un taccuino in mano a raccogliere spunti di quotidianità. A raccontare la sua Roma, con la disincantata tranquillità.
E riversare nelle pagine il dolore per una generazione che siede sulle spalle dei giganti, che fa i conti con il secolo appena passato delle rivoluzioni e degli atti – singoli o di comunità – di violenta rottura.
La generazione senza archetipi
E’ la generazione che non ha più riferimenti, non ha più collanti, non ha più figure archetipiche a dettare convinzioni e credenze. La generazione della fluidità, la generazione che guarda ai genitori non più come esempi da seguire ma come figuranti di un’arcadia irripetibile. Quella che è espulsa dai grandi gruppi sociali e sociologici in cui specchiarsi e trovare se stessi. Quella che, per definirsi, è costretta a cercare in sé e solo in sé, le tracce del proprio essere, le intuizioni delle proprie passioni e non ha più binari o codici di decodificazione.
La generazione degli Iperborei che, alle porte della maturità, vagheggia costantemente sospesa tra l’essere e l’apparire e che, nell’apparire, cerca il silenziatore del proprio dolore. Perché se dovesse dargli spazio, se dovesse smettere di metterlo a tacere, si accorgerebbe delle urla, dei versi strazianti di un dolore, di una frattura incurabile tra ciò che dovrebbe essere e ciò che invece è.
E, in questo turbinio grigio e nero, in questo marasma, in questo giudizio universale in terra dove ci si assolve per non morire e ci si condanna per sensibilità, si staglia Poldo. Poldo, che sente il tempo, che è in grado di misurarlo, che è l’asceta, il punto zero in cui si somma amore, dolore, ansie e speranza. Morte e vita.
Poldo, che rincorre l’ultima luce di speranza e non si accorge che il tempo finisce. E non gli resta nient’altro che camminare in una Roma brulicante ma vuota, non gli resta che aggirarsi e districarsi tra le sue abitudini, sgonfiate di senso.
Ed è il senso allora che va ricercato.
Perché una generazione quale quella dei trentenni non trova altre forme di rappresentazione in cui riconoscersi se non quella della ricca disillusione o della fiduciosa rassegnazione?
Perché il dolore di chi ha tutto assume forme stereotipate di un anelato domani in cui guadagnarsi il successo o di un piatto presente in cui galleggiare.
Gli Iperborei prova a rispondere e rende tutto ciò con una scrittura che non fa il verso, non fa eco ai grandi, ma si guadagna tutto da sé: il suo spazio e la sua malinconia.
Non un romanzo di formazione, quanto una fotografia lunga 200 pagine. Uno spaccato fedele di un presente crudo, disincantato in cui è facile riconoscersi ma ancor di più, perdersi.
Dove tutto è falso, ma per pochissimo.
Edda Guerra