La scorsa settimana, Philip Alston (relatore speciale dell’ONU sull’estrema povertà) ha presentato un rapporto sulla base delle ultime ricerche scientifiche in materia di ambiente, con il quale intendeva mettere in guardia gli organi internazionali di competenza dai pericolosi effetti che il cambiamento climatico potrebbe comportare in futuro. Alston ha parlato infatti del rischio di apartheid climatico, intendendo con ciò la disparità nei modi e nei mezzi (soprattutto economici) che le popolazioni avranno per affrontare tale crisi.
Il funzionario ha inoltre ravvisato l’inadeguatezza delle misure adottate finora dagli organismi delle Nazioni Unite, affermando che questa politica ”Potrebbe condurre oltre 120 milioni di persone in povertà in più entro il 2030”. In sostanza, si è ribadito che in futuro i ricchi avranno la possibilità di scampare al disastro climatico, mentre i meno fortunati dovranno sottostare (se non soccombere) alle dure condizioni che verranno a crearsi.
Apartheid climatico: perché è già in atto
Verrebbe da chiedersi, con una domanda retorica, se ci sia davvero bisogno di aspettare altro tempo. La risposta è tanto semplice quanto ovvia: l’apartheid climatico di cui si parla è già in atto, tant’è vero che l’ipotetico futuro prospettato dal documento di Alston non è altro che il nostro presente. Pertanto, affermare che il peggioramento delle condizioni climatiche stia portando ad un aumento del gap tra chi ce la fa a sopportarle (i ricchi) e chi invece no (gli strati di popolazione più umili) è una banale ovvietà.
Non è un caso che, ultimamente, si assista a storie di decessi a causa del caldo, a tonnellate di ghiacciai che si sciolgono, a giornate caratterizzate da temperature record e ad un quadro climatico ormai sempre più imprevedibile in ogni stagione. In questo periodo, ad esempio, in Italia si parla molto dell’ondata di ”caldo africano” che sta invadendo la penisola. Ecco, capiamo che ad alcuni politici piaccia riempirsi la bocca di frasi come: ”Tutta l’Africa in Italia non c’entra”, ma non si può ignorare come neanche le temperature medie africane abbiano molto in comune con il nostro Paese; soltanto che queste non arrivano con i barconi e combatterle (con delle politiche mirate e sostenibili) non porterebbe gli stessi voti.
La chiave del discorso è proprio questa: stante la dichiarata situazione di emergenza climatica, gli Stati (e in questo caso non ci vergogneremmo di dire: ”Prima gli italiani”) dovrebbero farsi carico delle proprie responsabilità e proporre – quando non imporre – strategie sociali sostenibili ed ecologiche al fine di salvaguardare la salute del nostro pianeta e contrastare un apartheid climatico i cui effetti sono già piuttosto evidenti.
Ma cosa significa apartheid climatico?
Quando, nella storia, ci si è ritrovati a parlare di ”apartheid”, non lo si è mai fatto per caso: il termine sta ad indicare, letteralmente, una separazione, che in questo caso riguarda – sul piano economico – quella esistente tra la parte più ricca della popolazione mondiale e quella più povera. La scelta di Alston, per spiegare il concetto di apartheid climatico, è ricaduta su questo termine per via di un episodio verificatosi a New York nel 2012, quando l’uragano Sandy lasciò senza corrente gran parte dei cittadini della Big Apple. Non tutti, visto che alcuni edifici furono protetti; come il quartier generale di Goldman Sachs, che fu rivestito di sacchi di sabbia e alimentato da generatori elettrici ad hoc. Quella citata da Alston è l’immagine perfetta per comprendere l’aspetto e le conseguenze dell’apartheid climatico: da un lato i potenti che non vengono neanche scalfiti dai disastri ambientali e continuano a produrre, contribuendo peraltro al peggioramento del clima; dall’altro, chi queste condizioni le subisce e, non avendo modo di difendersi, è costretto a perdere tutto, a migrare o addirittura a perire.
Si ritiene dunque necessario, quando si parla di riscaldamento globale, non scindere mai il discorso da quello dell’iniqua distribuzione della ricchezza. In tal senso va la relazione dell’ONU, che sottolinea come il 75% dei Paesi in via di sviluppo dovrà pagare le conseguenze della crisi climatica, quando la metà più povera dell’intera popolazione è da ritenersi autrice solamente del 10% delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
Basterebbe un piccolo sforzo
L’apartheid climatico così com’è stato descritto dall’ONU lascia immaginare qualcosa di lontano (sebbene non troppo) nel tempo, uno scenario apocalittico che si verificherà in un imprecisato futuro. In realtà, come abbiamo visto, riguarda il presente, ma soprattutto dipende da noi. Se, in una situazione che possiamo considerare grave come una guerra, tutti ci impegnassimo nel nostro piccolo – adattando il nostro stile di vita e pretendendo che i governi si occupino seriamente della situazione -, la differenza tra strati più e meno agiati di popolazione si assottiglierebbe, sventando di fatto lo stesso apartheid climatico.
Da parte nostra, basterebbe modificare piccoli comportamenti, cambiare quelle abitudini quasi viziose per fare la differenza. Di idee innovative e originali per non inquinare ce ne sono tante (basta una ricerca su Google e, se state leggendo questo articolo, potete farla anche appena finite). Ma il problema è uno: siamo davvero disposti a risolvere questa situazione o vogliamo continuare a raccontarci che l’inquinamento sortirà i suoi effetti tra un numero indefinito di anni? Il futuro di cui si parla è adesso.
Consapevoli di ciò, non ci rimane che scegliere: continuare a fingerci spettatori di una crisi che ci riguarda più che direttamente o modificare le nostre abitudini poco sostenibili e rendere questo mondo più vivibile per tutti.
Samuel Giuliani