Aggredito e accoltellato per tre volte da degli sconosciuti, poi ricercato da agenti di polizia nell’ospedale Ben Lmahdi di El Aaiún dove era andato a farsi medicare le ferite e bloccato per impedirgli di curarsi. Questo è quello che è successo a Mohamed Dihani, attivista saharawi e direttore di Western Sahara Times, lo scorso 13 dicembre nei territori occupati del Sahara Occidentale.

Non è la prima volta che questo succede a Mohamed Dihani. Lui e tanti altri attivisti saharawi in Sahara Occidentale sono stati aggrediti, arrestati, torturati. Molti sono stati uccisi e oggi sono considerati dei martiri dal popolo saharawi. Il responsabile è sempre uno: lo Stato marocchino, che da anni occupa una parte di quei territori e perseguita chi invece ne reclama la libertà.

Dunque se fai parte del popolo saharawi, cercare libertà e autodeterminazione in Sahara Occidentale è pericoloso. E quello che è successo a Mohamed Dihani lo conferma.

Aggredito e poi zittito, in realtà Mohamed ha una storia di repressione ben peggiore sulle spalle: «Ho iniziato a comprendere la situazione del popolo saharawi quando ero piccolo e tutti i miei familiari e vicini avevano anche solo paura di pronunciare la parola saharawi perché “le mura ascoltano”», ci racconta quando inizia a parlare della sua storia. Stiamo parlando degli anni Ottanta, anni in cui il Marocco aveva già occupato il Sahara Occidentale e faceva scomparire chiunque si opponesse a questo stato di cose.

Mohamed Dihani dopo la liberazione dal carcere nel 2015

Anche Mohamed sperimenta fin da piccolo cosa vuol dire essere saharawi e rivendicarlo: a dieci anni viene arrestato e poi multato per alcune scritte contro lo Stato marocchino e il Re a quattordici per aver bruciato una bandiera del Marocco. Tutto questo avveniva ad El Aaiún, considerata la capitale del Sahara Occidentale, che oggi è occupata militarmente ma sul quale il Marocco non dovrebbe avere alcuna sovranità, come dichiarato dalla stessa Corte di giustizia europea. «Dopo questi episodi me ne sono andato in Italia con mio padre, dove ho cercato di attivarmi e fare informazione su quello che succedeva nella mia terra e sono tornato in Sahara Occidentale nel 2008».

Ed è qui che viene il peggio: questi anni sono un susseguirsi di battaglie e inseguimenti, finché Mohamed non viene arrestato nel 2010 e portato nel carcere segreto di Tmara (vicino Rabat).

«Qui ho passato 7 mesi senza che nessuno sapesse nulla di me, sono stato torturato fisicamente e psicologicamente. Dopo sono stato spostato in altre carceri fino a che, nel 2015, non ho ottenuto la libertà grazie alla presenza di alcuni operatori di Amnesty International».

Ma com’è oggi la situazione del popolo saharawi e degli attivisti in Sahara Occidentale?

La maggior parte del popolo saharawi vive nei campi profughi a Tindouf, in Algeria; poi c’è un 30% di territori liberati dal Fronte Polisario in Sahara Occidentale mentre la parte restante è sotto occupazione militare marocchina.

Ed è qui che vive Mohamed, dove da tre anni è “libero” ma con una costante minaccia che lo segue, ovunque vada: «È difficile lavorare per la nostra causa: ci impediscono di fare qualsiasi cosa e anche per riunirci o organizzare iniziative dobbiamo farlo in segreto, per non parlare delle manifestazioni, che non appena iniziano vengono represse violentemente dalla polizia».

Per non parlare poi della situazione a livello sociale ed economico che determina la vita di ogni giorno degli abitanti del Sahara Occidentale: «Non abbiamo la possibilità di sviluppare ad esempio un buon sistema scolastico o ospedaliero, anche perché il Marocco depreda le nostre risorse naturali, impoverendoci».

Uno dei motivi per cui il Marocco mantiene il controllo militare sul territorio, infatti, è proprio la presenza di risorse in abbondanza: fosforo prima di tutto, ma anche oro e petrolio. E in questo sono coinvolti anche le potenze europee che hanno interesse a mantenere il silenzio sulla situazione dei saharawi:

«Il 91% della pesca del Marocco verso l’Europa viene dalle acque del Sahara Occidentale e c’è una sentenza della Corte di giustizia europea che sancisce che le acque del Sahara Occidentale non possono essere sfruttate dal Marocco per la pesca. Eppure c’è ancora un accordo fra il Marocco e 19 paesi europei, per poter sfruttare quelle acque. Le potenze europee ci guadagnano in ricavi e impiego di manodopera (la Spagna ad esempio impiega 130.000 lavoratori e guadagna 5 miliardi all’anno), mentre il Marocco – oltre ad avere 40 milioni dalla Spagna – dimostra di avere sovranità sul nostro territorio».

Nonostante 82 paesi oggi riconoscano la Repubblica Democratica Araba dei Saharawi e la RASD sia parte dell’Unione Africana, la situazione di fatto non cambia. Unione Europea e Nazioni Unite non riconoscono la RASD e così le sentenze della Corte di giustizia europea, che però parlano, almeno, del Sahara Occidentale e del Marocco come di territori distinti. In questo contesto lo Stato marocchino fa il bello e il cattivo tempo, «impedisce a giornalisti, attivisti e deputati europei di entrare in Sahara Occidentale: vengono scacciati direttamente all’aeroporto di El Aaiún».

Come si mobilita allora il popolo saharawi? E cosa sta facendo il Fronte Polisario?

«Il Fronte Polisario ha vinto la battaglia del ‘91 per fare il referendum sull’autodeterminazione dei saharawi (che di fatti è ostacolato da 27 anni dal Marocco e non mai è stato attuato); nel frattempo il Polisario cerca di portare questa causa a livello internazionale attraverso i mass media e con cause legali contro chi fa interessi col Marocco a discapito dei saharawi», come nel caso della pesca nelle acque del Sahara Occidentale.

@Photo credit FAROUK BATICHE/AFP/Getty Images

All’interno di questo contesto fatto di repressione e violenza, dove il popolo saharawi è disgregato fisicamente e psicologicamente, le donne hanno un ruolo fondamentale:

«L’80% delle nostre istituzioni governative è fatto da donne: questo perché quando gli uomini si arruolavano nel Fronte Polisario, erano le donne a ‘rimanere’ e a dover gestire la comunità, dai campi profughi alle zone liberate», spiega Mohamed. «Inoltre, secondo le tradizioni saharawi la donna è una figura molto rispettata, a cui è sempre stato riconosciuto un altissimo valore di guida».

È dal basso di queste comunità che il popolo saharawi resiste, mantenendo la propria cultura e le proprie tradizioni a dispetto della vita nei campi profughi e della violenza dell’occupazione militare. È in questi luoghi che nasce e si coltiva il sogno di vivere liberi. La domanda adesso è solo una: sarà un giorno il popolo saharawi libero di autodeterminarsi?

Elisabetta Elia

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