Con il concetto di intersezionalità – introdotto da Kimberlé Crenshaw, attivista e giurista americana – è cambiato il modo di comprendere le diseguaglianze e i problemi sociali. “L’intersezionalità è una metafora che ho sviluppato per chiarire i modi in cui forme di discriminazione distinte a volte si intrecciano e creano ostacoli che spesso non vengono compresi se confinati nella discriminazione razziale o di genere” – racconta Crenshaw in un’intervista per Jacobin Italia. Per la prima volta le discriminazioni non apparivano in categorie mutualmente esclusive, come succedeva nei tribunali americani nei confronti delle donne nere. Questa nuova cornice teorica consente, infatti, di spiegare l’intreccio di identità sociali, discriminazioni multiple e oppressioni che agiscono su svariati livelli contemporaneamente, come nel caso delle donne disabili che corrono un maggior rischio di subire violenze fisiche e psicologiche nel corso della vita.
Non è un caso che proprio negli Stati Uniti fra gli anni Settanta e Ottanta si inizi a parlare di discriminazioni multiple, scrive l’avvocata Barbara Giovanna Bello, dal momento che il diritto e i movimenti per i diritti civili non sembravano in grado di riconoscere l’oppressione subita dalle donne nere, discriminate in quanto donne e in quanto afroamericane. Da una parte, i movimenti femministi portavano avanti le lotte delle donne bianche di classe media, dall’altra, i movimenti per i diritti delle persone nere erano perlopiù composti da uomini. Inoltre, nel saggio “Discriminazioni multiple e intersezionalità: queste sconosciute!” l’avvocata segnala come i concetti di discriminazione multipla e intersezionalità siano ancora estranei alla cultura giuridica italiana, nonostante l’importanza che essi ricoprano nello svelare la complessità dell’identità sociale di una persona.
La violenza sulle donne acquisisce all’interno di questo framework una natura complessa da de-costruire ed è proprio questo l’intento di un gruppo di studentesse provenienti da diversi ambiti disciplinari che ha dato vita alla campagna “NO alla violenza di genere contro le donne #nonstozitta #tirispetto”. Attraverso una serie di video questo progetto si propone di informare e sensibilizzare la popolazione sul tema della violenza di genere (in particolare la violenza sulle donne) con il contributo di un’operatrice attivista del Centro Antiviolenza e Casa Rifugio dell’Associazione Differenza Donna di Roma e un’operatrice del CAM (Centro Ascolto uomini Maltrattanti) di Firenze.
Discriminazioni multiple: cosa significa essere una donna disabile sopravvissuta alla violenza?
La strada verso il progresso e l’emancipazione della donna appare lunga e tortuosa, ma passi in avanti possono essere sicuramente compiuti identificando le discriminazioni multiple di cui sono oggetto le donne appartenenti a minoranze etniche, le immigrate e le rifugiate, le donne disabili, ma anche le anziane e le lesbiche. Oltre ad essere le più discriminate, queste donne hanno difficilmente accesso ai CAV (Centri AntiViolenza) e alle informazioni necessarie a chiedere aiuto in caso di violenza. Con le sue azioni di sensibilizzazione rivolte ai giovani contro la violenza sulle donne la campagna Step Up!, lanciata da D.i.Re contro la violenza insieme alle organizzazioni di altri 18 paesi appartenenti al WAVE (Women Against Violence Europe), riconosce l’importanza di garantire l’accesso ai CAV alle donne disabili sopravvissute alla violenza e di migliorare i servizi dedicati alle loro esigenze (come l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’accoglienza in lingua dei segni). Ad esempio, per le donne affette da sordità sono stati pubblicati due video in LIS (lingua italiana dei segni) intitolati “Il tuffo di Lulù” e “LIS – I segni contro la violenza alle donne” al fine di spiegare cos’è la violenza e come chiedere aiuto.
A tal proposito Alice degl’Innocenti, coordinatrice della campagna, racconta: «Essendo un campo vastissimo quello della disabilità, si è trattato per noi di una sensibilizzazione ulteriore: all’interno dei centri dobbiamo fare un passo in più, ma anche verso l’esterno vi diciamo che potete chiedere aiuto». Gli operatori dei CAV devono infatti riconoscere le discriminazioni multiple e le specificità di una donna disabile o di una donna migrante vittime di violenza, calandosi nel contesto particolare in cui vive e utilizzando i giusti strumenti in base al tipo di disabilità, spiega la coordinatrice di Step Up!.
Alla mancanza di pari opportunità che contraddistingue la condizione femminile nella società si aggiungono le discriminazioni, la difficoltà di partecipazione e l’esclusione sociale legate al mondo della disabilità. Di fatti, come rileva il report di Fish (Federazione Italiana per il superamento dell’handicap) le donne disabili raramente ricoprono ruoli di responsabilità e sono più esposte a violenze, abusi e sfruttamento, anche a causa della dipendenza economica. I dati ISTAT non sono rassicuranti: il 36,7% delle donne con malattie croniche o problemi di salute di lunga durata ha ricevuto violenze fisiche o sessuali, il 36,6% delle donne con gravi limitazioni nelle attività e il 36,2% di chi ha limitazioni non gravi, rispetto al 30% di chi non ha limitazioni o problemi di salute.
La violenza di cui sono vittime le donne disabili è spesso sottile e difficilmente riconoscibile dalle stesse. Dalle indagini risulta evidente il divario fra violenza percepita e violenza subita: alla domanda “hai mai subito violenza?” molte rispondono negativamente, ma durante interviste più approfondite le stesse donne riconoscono di aver subito alcune forme d’abuso.
Luisa Bosisio Fazzi, esperta del EDF (Forum Europeo Disabilità) impegnata a livello europeo e internazionale sulla questione delle donne vittime di violenza e sui diritti delle donne disabili, descrive perfettamente: «Sulle donne con disabilità ci sono dei miti e dei pregiudizi che vanno ad influenzare tutta la storia di una donna da quando è bambina. La donna con disabilità è invisibile all’interno del mondo della disabilità, così come lo è all’interno del mondo della donna». La mancanza di consapevolezza sui propri diritti e sulla propria identità ha conseguenze riconducibili alla questione dei diritti sessuali e di salute riproduttiva, come spiega Bosisio Fazzi a proposito delle discriminazioni multiple: «Subentrano due stereotipi, da una parte la donna o bambina con disabilità è considerata asessuata, dall’altra appare come iper-sessuata. Quest’ultimo caso avviene soprattutto con le donne che hanno disabilità intellettiva. In questo contesto rientrano azioni specifiche che riguardano le donne con disabilità: la contraccezione forzata, l’aborto e la sterilizzazione forzati». Da qui l’importanza dell’educazione sessuale e di una crescita identitaria per le donne e le ragazze con disabilità. In questo senso è emblematico il caso di Ashley a Seattle, bambina con disabilità intellettiva a cui sono stati asportati gli organi genitali ed è stata bloccata la crescita con l’assunzione forzata di ormoni.
Il Rapporto 2018 delle Associazioni di donne sull’attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia, trasmesso al GREVIO (Gruppo Esperte sulla Violenza del Consiglio D’Europa) definisce un vero e proprio “vuoto” la mancanza di interesse e di analisi sugli specifici bisogni delle donne disabili. Risulta complicato in questo contesto pensare e attuare misure di contrasto in grado di migliorare la condizione delle donne disabili, riuscendo allo stesso tempo a favorire un cambiamento culturale nella società italiana, permeata da sessismo diffuso e stereotipi di genere. Anche il nuovo video della campagna “Violenza sulle donne. In che Stato siamo?” di D.i.Re. denuncia la mancata attuazione della Convenzione nel nostro Paese per le donne con disabilità ed esposte a discriminazioni multiple
Tuttavia, a 25 anni dalla Piattaforma d’azione di Pechino alla IV Conferenza mondiale delle donne non sembra tutto perso come afferma Antonella Veltri: «Le donne, nelle organizzazioni e nei movimenti, non hanno mai smesso di far sentire la loro voce, facendo proprie battaglie contro le molteplici discriminazioni che colpiscono le donne, legate alla classe sociale e ai processi di impoverimento, al razzismo, alla sessualità e alle discriminazioni di genere».
Rebecca Graziosi