Madaski, insieme a Bunna, è uno dei fondatori degli Africa Unite, uno tra i gruppi reggae più longevi d’Italia. Irriverenti e decise nella loro visione del mondo, con uno sguardo relazionale alla società odierna, le canzoni della band affrontano, attraverso un punto di vista diretto e intelligente, tematiche inerenti i più disparati argomenti tra cui la cultura giamaicana, il razzismo, la guerra, l’omofobia e la musica, intesa come terapia dell’anima.
Gli Africa Unite, per portare il loro messaggio d’amore, pace e uguaglianza, hanno percorso chilometri e chilometri senza mai ambire ai riflettori di una popolarità commerciale e di massa. Da ricordare il concerto del gruppo in Iraq sotto la dittatura di Saddam Hussein, in piena notte del deserto. Nel deserto della nostra società, nel deserto delle idee.
Senza scendere a compromessi, contro i pregiudizi di qualsiasi tipo, Madaski espone la propria ideologia e le sue posizioni con la rispettosa libertà che si è guadagnato sul palco, percorrendo strade meno facili.
Oltre quarant’anni di carriera: come sono cambiati il mondo dei concerti e il pubblico?
«L’organizzazione dei concerti è cambiata parecchio. Quando abbiamo cominciato non c’era quasi nulla, soprattutto nel nostro genere, nel reggae, non c’era niente! Era tutto organizzato in maniera molto amichevole dagli appassionati di questa musica, che cominciava a farsi sentire anche in Italia. Perché nel resto del mondo, era da almeno sette/otto anni che Bob Marley faceva proseliti, da quando ha fatto il grande salto commerciale. Da noi è arrivato nell’81, anno in cui è morto: abbiamo iniziato ad ascoltare il reggae, sempre con un po’ di ritardo. Quindi, prima di arrivare al reggae nostrano, che ha un’impronta filosofico culturale molto diversa da quella giamaicana, c’è voluto parecchio tempo. Gli Africa Unite sono stati protagonisti da allora fino ad oggi, hanno visto quel cambiamento. Il pubblico è diventato più giovane, noi siamo diventati più vecchi. E questo è molto bello, in realtà, perché se il pubblico si fosse limitato ad invecchiare con noi, adesso non ne avremmo più. Ciò ci fa capire che siamo in grado di parlare: prima parlavamo solo ai nostri coetanei, ora a persone che potrebbero essere i nostri figli. Se continuiamo su questa strada, vuol dire che gli Africa Unite hanno un senso di lungimiranza.»
Questo dialogare con giovani che potrebbero essere vostri figli, in qualità di Africa Unite, vi dà un senso di responsabilità maggiore in quello che scrivete o nei temi che trattate?
«No, perché li scrivo io che non ho figli e sono assolutamente irresponsabile. Quindi continuo a dire quello che mi passa per la testa: il bello è questo! Altrimenti non si riuscirebbe a parlare ai giovani; l’eccessiva responsabilità, troppo spesso, affossa le idee.»
I temi sociali caratterizzano da sempre le canzoni degli Africa Unite. In “Così sia” trattate il delicato tema dell’omofobia, in maniera opposta da come viene presentato nella cultura giamaicana.
«Noi andiamo contro tutti i capisaldi della cultura giamaicana perché non siamo giamaicani. Personalmente la reputo una non-cultura: quando si parla di religione e di ipotetica appartenenza al rastafarianesimo, ci si rifà, in realtà all’imperatore Hailé Selassié che fu colui che libero l’Etiopia da Mussolini, sostituendo una dittatura blanda con una feroce. Mi sembra azzardato riconoscere in una figura come lui, feroce assassino e despota, una seconda venuta del Cristo. Francamente, non riconosco neppure la prima, ma queste sono idee personali. Al di là di ciò, la questione dell’omofobia mi sembra assolutamente insostenibile, perché dipende direttamente dalla lettura rastafariana della Bibbia. Queste idee, alla fine, sono abbracciate da giovani aitanti e schiavi di una cultura commerciale figlia dell’hip hop americano che, poi, ad un certo punto, si riscoprono rastafariani ortodossi. L’ortodossia non fa mai bene. Noi prendiamo le nostre distanze, anche perché abbiamo una cultura diversa. Noi abbiamo usato il reggae e abbiamo imparato a suonarlo perché i nostri contenuti devono essere, ed è giusto che lo siano, diversi. Per noi la diversità, indipendentemente da quella sessuale, è semplicemente una grande risorsa e come tale va tutelata, ascoltata, non distrutta.»
Già in passato, con il vostro progetto “Sotto Pressione”, vi siete schierati contro la pena di morte, tema purtroppo, sempre attuale.
«A partire dal 2000, noi Africa Unite abbiamo affrontato questa tematica per diversi anni, in collaborazione con Amnesty International. Chiaramente, anche se in questo momento, non stiamo portando avanti una collaborazione specifica sull’argomento, le nostre idee, le nostre posizioni su questi temi non sono cambiate. Continuiamo a credere che qualsivoglia ortodossia, portata alle sue estreme conseguenze, sino al parossismo, sia estremamente dannosa. I casi di pena di morte ci pongono di fronte ad un’ortodossia che sfocia in atteggiamenti criminali, di fronte ai quali sembra non esserci via di scampo. Rimane aperta la questione su come combattere questo tipo di mentalità, tuttavia temo che non ci siano soluzioni. Di certo non è una situazione semplice. Possiamo condannare certe azioni, certi estremismi, siamo concordi, ma in fin dei conti, il semplice condannare a parole non serve a nulla, se non a ripulire le nostre coscienze. Purtroppo i movimenti democratici smuovono poco l’opinione pubblica; servono in paesi dove il valore dell’opinione non è riconosciuto, anzi è negato.»
Nella vostra lunga carriera, vi è capitato di suonare al Festival di Babilonia, organizzato dal regime iracheno. Come ricordate quell’esperienza, voi Africa Unite?
«È stata, senza dubbio, un’esperienza unica nel suo genere, a partire dalle modalità di viaggio. Noi, in virtù, della nostra collaborazione con Amnesty International, abbiamo portato dei farmaci per aiutare le popolazioni locali; le guardie hanno buttato via quasi tutto il carico perché, a detta loro, si trattava di prodotti di case farmaceutiche vicine al governo israeliano. A causa dell’embargo sullo spazio aereo iracheno, siamo atterrati fuori dai confini nazionali e poi abbiamo dovuto viaggiare di notte nel deserto, su due pullman scassatissimi. Io sono stato fortunato perché ero su quello meno scassato, sono arrivato a destinazione sano e salvo; l’altro si è fermato, sono dovuti andare a riprenderlo, impiegandoci così due giorni in più per arrivare. Per il resto, posso dire che è stato un bellissimo ricordo, soprattutto per il rapporto con la gente. Noi eravamo abituati da giovani incoscienti; ce ne siamo sbattuti del fatto che ci hanno detto chiaramente che non potevamo andare da nessuna parte, se non con i nostri accompagnatori ufficiali. Durante il concerto, ho fatto un appello alla libertà di parola; come non detto, lo hanno interrotto e ci hanno rispediti a casa. Anche il nostro pubblico è stato costretto, in maniera violenta, ad andarsene. Eravamo in un sito assiro ricostruito in onore di Saddam Hussein. Mi ha colpito il fatto che, a discapito di quanto raccontato dai media, non fosse molto amato, non solo in virtù del regime di terrore che aveva instaurato, ma anche per il suo antiamericanismo non propriamente condiviso dalle fasce più giovani di popolazione. Per quanto abbiamo visto e appreso, un viaggio del genere lo ricorderemo a vita!»
Vincenzo Nicoletti