La celebrazione delle primarie democratiche 2020 è entrata nel suo culmine emotivo ed elettorale. Si tratta di un rituale politico consolidato, considerato il fiore all’occhiello del sistema democratico statunitense. Troppo spesso, l’aleggiante coltre di sacralità demologica, comune a ogni folclore, prevede il “salto della fede”, e il riposo del senso critico. Non può essere questo il caso: la democrazia più influente al mondo è in vendita. Non si tratta certo di una novità, obietterà qualcuno. Eppure i contorni di quella che si può definire senza troppe reverenze o disillusioni “democrazia del dollaro” appaiono sempre più inquietanti, ma aprono anche un inconsueto spiraglio.
C’era una volta alle primarie democratiche
È un clima incandescente quello che anima il dibattito televisivo delle primarie democratiche prima del caucus del Nevada: Pete Buttigieg accusa l’avversario Mike Bloomberg di “comprarsi” la nomination e il partito attraverso le sue disponibilità finanziarie. Un’iperbole che rende perfettamente l’idea: le primarie per selezionare il candidato alla presidenza, che si tengono in tutti gli Stati federati del Paese, necessitano di una gargantuesca mole di finanziamenti da investire in new & old media, pubblicità e comizi, per retribuire i migliori analisti e strateghi della comunicazione e per sostenere campaigners e staff. Non si possono escludere dal novero finale neppure i costi indiretti per sostenere le “pubbliche relazioni” e il networking politico.
Una regola non scritta ma consuetudinaria è abbastanza consolidata: chi investe più fondi nella campagna elettorale ottiene il risultato per cui ha pagato, come in una qualunque transazione economica. Si tratta di un flusso di denaro abnorme, nell’ordine di milioni e milioni di dollari, che diventano carburante indispensabile che permette alla macchina della democrazia americana di mettersi in moto. Altresì, quest’ultima rimane meramente potenziale, almeno da un punto di vista dell’elettorato attivo.
Per Bloomberg, che possiede un ingombrante patrimonio personale di 54 miliardi di dollari, si tratta di una spesa assolutamente sostenibile, esattamente come lo fu per il miliardario Donald J. Trump alla convention repubblicana del 2016. E gli altri? Non essendo prevista alcuna fonte di finanziamento pubblico alla politica, la condizione di svantaggio e l’elemento dirimente per gli sfidanti del tycoon newyorkese (il riferimento a Bloomberg o a Trump è intercambiabile a vostra discrezione) è proprio quella della disponibilità economica.
Prima di elaborare le proposte di un programma politico, i candidati devono quindi premurarsi di commisurare i propri progetti e i propri ideali alla sostenibilità finanziaria, ossia, in linguaggio profano e prosaico, alle risorse che possono arrivare dai donatori, dalle lobby e dagli altri soggetti influenti della società americana. Nella maggior parte dei casi, pecunia non olet.
Il buono, il brutto e il cattivo
Le primarie democratiche di quest’anno saranno le più costose della storia, e il peso dei dollari si farà senz’altro sentire in modo ancora più fragoroso.
Nonostante le premesse, il presente appuntamento è contraddistinto da elementi di un certo interesse e novità: a confrontarsi sono sostanzialmente tre modelli di finanziamento delle campagne dei candidati, uno dei quali praticamente mai sperimentato negli USA.
Il primo modello è quello del miliardario prestato alla politica che si avvale in toto o quasi di risorse personali, ampiamente discusso e discutibile. Per la verità, tuttavia, gli elettori americani non avevano mai avuto il triste privilegio di assistere a tentativi di plutocrazia politica, quali la scalata del Partito Repubblicano di Trump e il tentativo di Bloomberg di ottenere la nomination democratica, esibiti così sfacciatamente.
A prevalere è stato, ed è tuttora, il secondo modello, quello del “do ut des”, e del lobbying: i candidati accolgono le donazioni delle grandi società e dei grandi patrimoni, dei gruppi di interesse e degli investitori finanziari a caccia di influenza politica. Attraverso il sistema dei Super PAC (Political Action Committee), non ci sono limiti alle cifre che i singoli soggetti privati possono prestare a una campagna. La selva di rapporti di contiguità che i candidati finiscono per tessere con il capitale condizionano con amplissimi margini la politica del Paese (basti pensare al ruolo della potente e intoccabile lobby delle armi, l’NRA, oppure ai giganti della Silicon Valley che ostacolano una tassazione più progressiva).
Rendiconti finanziari alla mano, tutti i contendenti alle primarie democratiche si stanno servendo di questo sistema, controllato dagli interessi economici di miliardari e milionari: da Joe Biden, che ha dalla sua anche l’endorsement delle gerarchie democratiche e dei settori tradizionali del “big business”, allo stesso Buttigieg, che, nonostante si sia appena clamorosamente ritirato dalla corsa, è stato in grado di raccogliere finora fondi elettorali per ben 81 milioni di dollari, provenienti in larghissima parte dalle grandi multinazionali americane, da Google a Microsoft, passando per Disney e svariate banche d’affari quotate a Wall Street.
Ma c’è chi sceglie di percorrere una strada alternativa: si tratta di Elizabeth Warren e soprattutto di Bernie Sanders, che hanno scelto di ricorrere solo a piccoli finanziamenti (massimo 200 dollari a testa, nel caso di Sanders) che vengono direttamente dagli attivisti, dai sindacati e dalle associazioni di categoria.
In particolare, l’anziano senatore del Vermont, attraverso questa prassi, è riuscito sorprendentemente ad arrivare in vetta all’impervia classifica dei finanziamenti raccolti dai candidati, con ben 132 milioni di dollari nell’arco di tutta la campagna, e 46 milioni da oltre 2 milioni di donatori solo in febbraio per il super tuesday. Non a caso, secondo le rilevazioni, Sanders è il front-runner delle primarie democratiche, e sempre non a caso il candidato social-democratico è apertamente osteggiato, oltre che dal sistema delle lobby, anche all’interno del partito.
La democrazia per un pugno di dollari
Quando l’agibilità politica dipende dai finanziamenti elargiti secondo la volontà e gli interessi dai grandi finanziatori, si innesca un processo disfunzionale e involutivo per la democrazia, tanto evidente da non richiedere dettagliati approfondimenti speculativo-filosofici. Con l’avvento dei mezzi del campionamento statistico e demoscopico prima, e dei nuovi strumenti della comunicazione online poi, e con la fluidità crescente dell’elettorato, l’aumento dei costi della politica è stato esponenziale e simultaneo a una restrizione delle garanzie della sfera pubblica.
Una combinazione insostenibile per i sistemi politici occidentali che ha condotto al consolidarsi nella prassi della democrazia del dollaro (non solo negli States): una democrazia nella quale il denaro riveste un ruolo politico da protagonista assoluto, ma è sottoposto a scarsi controlli, limiti o responsabilità. L’uguaglianza di tutti i cittadini nelle urne, cardine del liberalismo classico, è scavalcato dal potere che risorse economiche e influenza legittimano. La risultante naturale è una società profondamente e rigidamente diseguale, che non riesce a elaborare risposte democratiche per i bisogni della maggioranza, e nemmeno a tutelare le minoranze.
Le primarie democratiche, da merce costosissima sul mercato politico americano, potrebbero porre le premesse, se non per il superamento, quanto meno per la messa in discussione radicale di questo sistema, grazie alla logica “sovversiva” del fund-raising dal basso promosso da Sanders.
La contrapposizione ideologica tra questi due modi di concepire la politica e la democrazia è già titanica ed epocale, e si giocherà nelle urne del super tuesday: il successo delle candidature che si rassegnano a foraggiarsi attraverso i grandi capitali privati, o di quelle che intendono coinvolgere la cittadinanza nel suo complesso, racconterà sostanzialmente il futuro della democrazia americana.
Luigi Iannone