L’essere umano si trova in un momento probabilmente unico della sua lunga storia. In nessun altro momento miliardi di persone simultaneamente si sono fermate e con esse la produzione, l’economia, i trattati, le leggi e tutto quel che sembrava monolitico e irrinunciabile per l’intera umanità. Si sta manifestando con forza e rapidità il fallimento di un sistema, e con esso la necessità di un cambiamento globale. Ma quando si parla di cambiamento si impone una domanda: in quale direzione?
Cominciamo con una breve analisi che sebbene non esaustiva ci dà comunque indicazioni circa la direzione del processo e del fallimento annunciato di questo sistema.
Alla fine degli anni ‘70 nei Paesi occidentali nasce il neoliberismo. Sono anni in cui il mondo cambia a grande velocità, e tale accelerazione del tempo storico produce instabilità e disorientamento. In tale contesto si afferma un nuovo ordine mondiale, con un potere economico trasversale e sovranazionale che concentra la ricchezza nelle mani di pochi a discapito dei più. La costruzione del nuovo sistema mondiale è coordinata dal gruppo dei paesi più industrializzati, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. L’economia si fa sempre più virtuale e slegata dalla produzione reale. Nel 1970 il 90% del capitale coinvolto nelle transazioni economiche internazionali veniva utilizzato a scopi commerciali o produttivi e il 10% a scopi speculativi, nel 1994 quest’ultima percentuale saliva addirittura al 95%. Nel 2013, l’ammontare del PIL mondiale era di 75.000 miliardi di dollari, mentre l’ammontare delle attività finanziarie globali era 993.000 miliardi di dollari [Fonte: Il Sole 24 ore].
Ciò significa che migliaia di miliardi di dollari possono essere spostati da un’economia nazionale a un’altra: un ammontare enorme, superiore alle risorse di qualsiasi governo nazionale, che lascia ai governi possibilità estremamente limitate di operare scelte politiche economico-finanziarie. In altre parole, la popolazione mondiale non ha alcun ruolo nel processo decisionale. La Banca mondiale chiama questo fenomeno “isolamento tecnocratico”, alludendo alla necessità di un gruppo di tecnocrati, impiegati nelle grandi multinazionali, di operare in “isolamento” quando progetta le politiche di crescita. Una volta ottenuto lo scopo si potrà concedere tutta la “democrazia” che si vuole al sistema, tanto non farà alcuna differenza. Stiamo dicendo che i popoli vivono le leggi economiche come qualcosa di molto lontano dall’individuo comune, nonostante entrino nella nostra vita tutti i giorni sotto forma di restrizione dei diritti umani; che gli stati nazionali sono semplici amministrazioni senza alcun potere decisionale, etico o morale; che gli scambi economici mondiali sono quasi completamente basati su capitali virtuali, e tale virtualità può condizionare le politiche di Paesi e continenti.
Anche l’Unione Europea negli anni è andata trasformandosi in una banca che controlla l’economia dei Paesi membri, portando avanti politiche economiche molto rigide, dimostrando di non avere come interesse il benessere delle persone. Diversi economisti hanno affermato che questa politica porterà alla dissoluzione dello stato sociale, con tagli ai diritti fondamentali (sanità, educazione e qualità della vita), rendendo il lavoro sempre più flessibile, con poche certezze al futuro e con una minore protezione sociale. Un esempio è l’Italia, che negli ultimi 10 anni ha sottratto circa € 37 miliardi di euro al SSN [Fonte: Osservatorio Gimbe 2019]; ha fatto tagli sull’istruzione e solo nel 2045 ci sarà una salita dell’impegno economico di circa il 3,3%. Rispetto alla disoccupazione il Belpaese si trova al 10,2 per cento, il terzo più alto dell’Unione europea [Fonte: Doc. economia e finanza 2019].
In questo scenario stride La Carta dei diritti fondamentali dell’UE (Nizza, 2020) che parla di diritti civili, politici, economici e sociali. Se consideriamo i flussi migratori, soprattutto degli ultimi decenni, l’idea di Europa capace di far parlare e interagire popoli diversi esprime tutta la sua fragilità. L’Europa si è trasformata in una roccaforte sempre più chiusa alle persone che vengono dai Paesi più poveri.
Nell’attuale situazione di impoverimento dei Paesi era da aspettarsi che, di fronte a uno scossone come la pandemia, il sistema avrebbe dimostrato i suoi forti limiti. Di fatto l’Europa così come era stata organizzata non c’è più, i trattati sono saltati e sta mostrando la sua incapacità di porsi come modello di integrazione e solidarietà, creando terreno fertile per ledere la democrazia e far insorgere pericolosi populismi.
La pandemia ha creato una situazione di forte crisi e destabilizzazione senza precedenti, che genera nelle persone continui timori per una stabilità futura, mentre nel presente devono anche affrontare la paura di morire o di perdere qualche caro. Un timore che paralizza e che coinvolge ampie masse di popolazione, che genera la necessità negli individui di ristabilire le proprie priorità, di ritornare su sé stessi e sul senso delle proprie vite. Le risposte individuali possono essere varie e in un paesaggio violento come il nostro è una speranza che tutto prenda una strada positiva e non distruttiva, ma non ne abbiamo certezza e comunque tali risposte, se individuali, non sarebbero sufficienti.
Sebbene il quadro fin qui descritto sia poco incoraggiante, osserviamo anche che si sta diffondendo un nuovo tipo di sensibilità nella quale ogni persona è connessa all’altra. I giovani in tutto il mondo hanno la possibilità di far girare informazioni a livello globale, generando forme di protesta, al momento di carattere congiunturale, ma che contengono una componente nonviolenta interessante. Si osserva grande fermento nell’elaborazione di nuovi stili di vita basati su una visione più ecologica e cooperativa, caratterizzati da insiemi umani che agiscono dal quartiere fino a livello internazionale. Queste forme al momento spesso ingenue ed embrionali indicano tuttavia una tendenza alla messa in discussione del sistema, unica via per relazionarsi alla situazione in cui siamo.
In questa realtà si inserisce da oramai più di 40 anni il Siloismo, un’ideologia centrata sulla nonviolenza, sulla solidarietà e sull’essere umano come valore centrale. Da questo movimento di pensiero hanno avuto origine diverse forme organizzative che hanno creato rete con altre realtà locali o internazionali.
Questo scenario potrebbe auspicabilmente essere una risposta concreta al decadimento sociale ed economico, con una politica basata su rapporti di forza che potrebbe avere come conseguenze un impoverimento dei cittadini e l’esasperazione dello stato sociale. Il passo poi a forme di dittatura sarebbe ovviamente breve.
Ma nei momenti di forte crisi la storia ci insegna che l’umanità ha sempre dato il meglio. Potremmo paragonare questo momento della storia umana all’ansa di un fiume: il fiume scorre veloce e impetuoso, difficile da arrestare, ma in alcuni momenti nel suo corso si creano delle anse dove l’acqua è più calma, ed è proprio lì che si può operare un cambiamento. In questa ansa del fiume nella quale ci troviamo il vuoto di credenze che attanaglia i cuori potrebbe far sorgere una risposta alternativa che inizi a mettere fine alla violenza che ci circonda e che questa pandemia ha solo fatto evidenziare.
Forse questo è il momento in cui dovremmo seriamente chiederci: in quale mondo vogliamo vivere? Inevitabilmente si fa strada la necessità di dare una risposta alternativa usando la metodologia della nonviolenza attiva, una morale interna che ci porti a trattare l’altro come vorremmo essere trattati, affinché l’essere umano e le sue aspirazioni di liberazione siano poste come interesse e valore centrale, alimentando la fede nella possibilità di un cambiamento personale e sociale che ci aiuti a sottrarci al ricatto morale ed economico che questo sistema sta alimentando.
In particolar modo, dal punto di vista personale, dovremmo rafforzarci internamente, muovendoci in una direzione sempre più coerente con l’obiettivo di superare il dolore e la sofferenza in noi stessi, nel nostro prossimo e nella società umana fin dove arrivano le nostre possibilità di influenza. Dal punto di vista sociale, quindi, dobbiamo tentare di ricostruire un tessuto di relazioni, fatto di reciprocità e di cooperazione, prendendo come unità minima di azione il vicinato.
In questo cammino sarà necessario pensare, sentire e agire nella stessa direzione con lo sguardo rivolto all’altro, alla sua umanità, a ciò che ci unisce profondamente. Vi lasciamo con le ispiratrici parole di Silo, sperando che possano essere confortanti e d’aiuto in questo momento tremendo ma denso di grandi possibilità:
“Insieme a quanti si sono incamminati nella nostra stessa direzione creeremo i mezzi più adeguati affinché una nuova solidarietà possa manifestarsi.” [Silo, Lettere ai miei amici]
A cura di Guerrilla Espiritual