«Sono uomini soli, piccole quote che sfogano così la loro malinconia o solitudine. Purtroppo capita anche in altri contesti, non solo nelle adunate degli alpini». Così si è espresso Sebastiano Favero, presidente dell’Associazione nazionale alpini, nel corso di un’intervista pubblicata su alcuni quotidiani nazionali. Si continua a parlare, dunque, dei fatti di Rimini e si continua a farlo nel modo sbagliato.
E allora, repetita iuvant, ribadiamolo ancora una volta: la molestia non è un’esperienza professionalizzante, non è una manifestazione goliardica (vedi la vicenda Greta Beccaglia), non è un rimedio alla malinconia. E il fatto che, per l’ennesima volta, sia stata descritta in questi termini non è altro che la dimostrazione più evidente di un problema culturale che si manifesta e, allo stesso tempo si alimenta, nella nostra incapacità di parlare di certi argomenti. E chissà che questa incapacità non nasca da quel prolungato esercizio al silenzio a cui da sempre abbiamo obbligato – o cercato di obbligare – le donne che hanno subito violenza. Una violenza alla quale è stato dato altro nome e che, col tempo, ci ha indotto a confondere i commenti indesiderati (più spesso avances sessuali da parte di perfetti sconosciuti) come complimenti di cui poter andar fiere. La gelosia asfissiante come forma di amore. La molestia come qualcosa che, comunque la si voglia definire, resta riducibile a una semplice goliardata perché, si sa, boys will be boys.
“So’ ragazzi” – so’ alpini, in questo caso – è il passepartout universalmente riconosciuto e significa una cosa sola: a un maschio non si può chiedere di non agire in una certa maniera, di non dare sfoggio alla sua virilità, perché certi comportamenti sono parte integrante e irriducibile della sua stessa natura. Comportamenti che nell’ambiente militare – come, d’altra parte, in quelli che vedono tanti uomini riuniti insieme – finiscono con l’estremizzarsi in nome di una delle manifestazioni più emblematiche della mascolinità tossica: il cameratismo. Infatti, sebbene nella definizione data da Treccani si legge di questo fenomeno come di un «sentimento di amichevole e cordiale solidarietà fra camerati», nella pratica esso si trasforma nella logica del branco. Un branco che non riconosce l’altro come individuo, ma che uniforma l’individualità a un preciso standard normativo così da imporre una mentalità comune.
Una mentalità che, nel caso – vorrei poter dire specifico – dell’adunata di Rimini, ha portato membri non ancora identificati del gruppo degli alpini a comportarsi contro ogni ragionevole norma di convivenza civile e, soprattutto, a prendere di mira donne e ragazze. In centinaia, infatti, hanno inviato segnalazioni all’associazione femminista Non Una Di Meno Rimini, denunciando di aver subito molestie e violenze verbali e fisiche. Tuttavia, benché le segnalazioni fossero partite già durante la manifestazione svoltasi tra il 5 e l’8 maggio, come sempre accade in queste circostanze, la risposta delle istituzioni è stata tarda a venire e ha mancato di unitarietà. Molti esponenti del mondo politico non hanno esitato a schierarsi a fianco degli alpini o a minimizzare i fatti accaduti. Lo stesso Favero, appena qualche giorno fa, sosteneva che le denunce raccolte sui social non erano attendibili e, pertanto, chiedeva fatti concreti. Una posizione che, però, si è visto costretto a modificare quando le segnalazioni giunte a Non Una Di Meno Rimini sono salite a 500.
«Gli episodi di Rimini», ha detto Favero nel corso dell’intervista rilasciata alcuni giorni fa, «hanno sicuramente creato malessere in chi li ha subiti, ma hanno anche provocato un danno d’immagine alla nostra organizzazione. Stiamo valutando con i nostri legali come tutelarci qualora vengano trovati gli autori».
Più che di tutelare l’immagine degli alpini, tuttavia, ci si dovrebbe preoccupare di tutelare quelle donne che, a seguito di una molestia subita, decidono di testimoniare l’esperienza vissuta. Un’esperienza che non può e non deve perdere di validità solo perché il suo racconto non è affidato alle autorità. Scegliere di denunciare non è mai semplice e le ragioni per cui una donna può decidere di non farlo sono molteplici, ma è facile intuire che se la molestia proviene proprio dai membri di un corpo dell’esercito allora denunciare diventa ancora più difficile. Forse, allora, più che fingerci stupirti dovremmo sforzarci di pensare al fatto che, di fronte a una denuncia per stupro o per molestia, la prassi più diffusa resta quella di mettere in discussione la credibilità della donna abusata.
Virgilia De Cicco