La crisi climatica, secondo numerosi studi accademici, sembra essere un fattore sempre più influente nello spiegare il rischio di guerre e conflitti in tutto il globo. Non solo, ma qualsiasi analisi geopolitica degna di questo nome non può non considerare le conseguenze sociali e politiche che gli effetti del cambiamento climatico (desertificazione, innalzamento del livello del mare, o i fenomeni climatici estremi) producono sulle società odierne. Il legame sembrerebbe lineare: un aumento delle temperature incrementerebbe il rischio di siccità e di catastrofi ambientali; da qui shock economici che colpirebbero soprattutto le regioni più povere, basate sull’agricoltura; il disagio socioeconomico aumenterebbe le tensioni sociali, le disuguaglianze e quindi il rischio di conflitti armati sarebbe maggiore.
Tuttavia, se tra gli studiosi esiste un generale consenso sui potenziali collegamenti tra cambiamento climatico e conflitti, vi è anche disaccordo sui meccanismi specifici che portano al risultato bellico.
La ricerca sul legame tra crisi climatica e guerre
Negli ultimi anni si è assistito a un sensibile aumento delle pubblicazioni scientifiche tese a indagare la potenziale correlazione tra cambiamento climatico e conflitti armati, e anche l’IPCC (il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) ha incluso nel suo ultimo Assessment Report (AR5, 2014) gli effetti sulla sicurezza umana della crisi climatica, tra cui le guerre: anche se la forza della correlazione è molto incerta, vi è una «giustificata preoccupazione» che cambiamenti nella variabilità del clima aumentano il rischio di conflitti armati.
L’ultimo studio a riguardo, pubblicato su Earth’s Future da un team internazionale di ricercatori, passa in rassegna lo stato dell’arte sul rapporto tra clima e conflitti armati organizzati, con l’obbiettivo di tracciare le future direzioni di ricerca. Il paper dichiara apertamente la persistenza di disaccordo sul rapporto tra crisi climatica e rischio di conflitti violenti, disaccordo che limita fortemente la gestione sociale di questi rischi e le risposte più adatte.
Per questo, sarebbe necessario integrare gli innumerevoli disegni di ricerca per identificare quali sono i meccanismi, quando si rivelano importanti e come si manifestano. Una volta compresi, bisogna capire come rompere la correlazione, e qui entrano in gioco le analisi delle decisioni politiche e soprattutto la messa in campo di interventi efficaci. Le tecniche standard di gestione dei conflitti (come la mediazione, il peace-keeping e gli aiuti umanitari e allo sviluppo) sono sufficienti? O serve un nuovo tipo di interventi che, attraverso la cooperazione globale e locale per mitigazione e adattamento, riescano a gestire la sicurezza umana e i rischi di conflitto armato derivanti dalla crisi climatica?
A riguardo, lo stesso pool di ricercatori in un precedente studio ha valutato l’attuale stato di comprensione del rapporto tra clima e guerre, sulla base dei giudizi strutturati di esperti provenienti da diverse discipline. Secondo questi ultimi, quattro fattori sono particolarmente influenti per il rischio di conflitto: un basso sviluppo socioeconomico, scarse capacità dello Stato, disuguaglianze tra gruppi e la storia recente di conflitti violenti. Nelle guerre nell’ultimo secolo fino ad oggi, il clima ha sì influenzato il rischio di conflitti armati organizzati all’interno dei Paesi, ma ha avuto un ruolo molto minore rispetto agli altri fattori. Tuttavia, con l’esacerbazione degli effetti del cambiamento climatico, il fattore clima sarà sempre più influente nell’aumento dei rischi: in uno scenario dove le temperature medie globali si innalzino di 2°C sopra i livelli pre-industriali, le probabilità di incremento del numero di conflitti armati sarebbe inferiore al 13%; in uno scenario più grave (+4°C sui livelli pre-industriali), il rischio di conflitti armati impennerebbe arrivando al 26%.
Effetto serra, effetto guerra
Anche in Italia non mancano validi contributi al dibattito. Uno di questi è un libro uscito nel 2017 per Chiarelettere, Effetto serra effetto guerra. Clima, conflitti, migrazioni: l’Italia in prima linea, scritto a quattro mani da Grammenos Mastrojeni, diplomatico italiano esperto in cooperazione allo sviluppo, e da Antonello Pasini, fisico climatologo del CNR esperto in scienze del clima e autore del blog Il Kyoto Fisso.
Se la prima parte del libro è dedicata a una spiegazione sintetica della scienza del clima, adatta ai non addetti ai lavori, la seconda cerca di gettare luce su come, dove e quando la crisi climatica potrà condurre a crisi geopolitiche e conflitti armati, analizzando i vari teatri globali di rischio, dai Poli alle Ande.
Secondo lo stesso Pasini, è possibile mettere in atto strategie doppiamente vincenti (win-win) che creino sinergie capaci di mitigare il cambiamento climatico, e che allo stesso tempo promuovano la pace e diffondano l’equità tra nazioni. La conclusione a cui giungono i due autori provenienti da due mondi solo apparentemente così lontani è chiara: se il cambiamento climatico ha un impatto sproporzionato sulle popolazioni più povere del mondo e contribuisce al loro disagio economico e sociale, e se queste possono essere in questo modo tentate dai richiami del terrorismo e dalla violenza armata, lasciarle sole di fronte agli effetti della crisi climatica non fa altro che permettere la crescita di teatri di conflittualità e instabilità che raggiungeranno anche noi, prima o poi.
La crisi climatica tra conflitti, migrazioni e lotta per le risorse
Se finora l’influenza della crisi climatica sul rischio di conflitto non è stata così forte e immediata, tuttavia non mancano episodi che stanno accadendo proprio adesso: basti pensare alle cosiddette guerre per le risorse naturali scarse, o alle sempre più frequenti guerre per l’acqua, dalla diga di Mosul in Iraq fino alla Striscia di Gaza.
Un esempio di come la crisi climatica con le sue conseguenze ci riguarda direttamente sono le migrazioni climatiche e quelli che potremmo ormai definire profughi climatici. Uno studio pioniere ha evidenziato l’esistenza di un meccanismo che va, in un primo momento, dalla crisi climatica al rischio di conflitto e, in seguito, dal conflitto all’emigrazione forzata di origine climatica con un sensibile aumento dei flussi migratori.
Un altro teatro geopolitico particolarmente vicino all’Italia (storicamente e per gli ultimi avvenimenti) è la Somalia. Un rapporto pubblicato dallo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) ha evidenziato come il gruppo terroristico al-Shabaab, sfruttando le siccità indotte dalla crisi climatica e la debolezza dello Stato somalo, fornisce aiuti “umanitari” efficaci e alternativi nelle aree del Paese sotto il proprio controllo, rafforzando la propria legittimità tra la popolazione. Così, gli effetti del cambiamento climatico, minando la legittimità statale e il mantenimento della pace, stanno fomentando indirettamente il terrorismo.
I conflitti armati e le guerre hanno effetti devastanti e di lunga durata per le società colpite, dilaniate da circoli viziosi che non sembrano avere fine, mentre le conseguenze di un conflitto aumentano sensibilmente la loro vulnerabilità legata alla crisi climatica. Saranno necessari sforzi globali, trasversali e interdisciplinari, dalla ricerca scientifica fino ai decisori politici, per comprendere appieno le molteplici correlazioni tra clima e conflitto armato, così da elaborare le risposte più appropriate e agire.
Augusto Heras
Grazie per l’interessante articolo e per la citazione. Le segnalo il mio ultimo articolo scientifico sul tema, che ho presentato recentemente in un post sul mio blog, nel quale e’ linkato anche l’articolo originale, che e’ open access:
http://pasini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.it/2019/05/28/migrazioni-climatiche-verso-litalia/
Grazie a lei per leggerci e per i preziosi suggerimenti bibliografici. Leggerò (e leggeremo) al più presto
Altro articolo interessante potrebbe essere “Climate actions in a changing world”, che pero’ purtroppo non e’ a libero accesso:
https://journals.sagepub.com/doi/full/10.1177/2053019618794213