Sui giornali si continua a parlare ancora del Regno Unito, della Brexit e di come Boris Johnson sia rimasto incastrato tra le manovre di un ritrovato Parlamento sovrano, il quale è stato capace di arginare, non si sa per quanto, il pericoloso euroscetticismo dei Tory e di Nigel Farage.
Negli ultimi giorni, infatti, BoJo ha incassato due sonore sconfitte che mettono a serio rischio i suoi piani. La prima è arrivata sul no deal: i parlamentari hanno votato una legge che obbligherebbe il Primo Ministro, nel caso in cui non si raggiungesse un accordo entro il 19 ottobre, a chiedere un rinvio della Brexit. La seconda, invece, è arrivata sulle elezioni anticipate, le quali, nelle intenzioni di Boris Johnson, avrebbero dovuto consegnare ai Tory una maggioranza tranquilla.
Due duri colpi per il tronfio Primo Ministro che, nonostante tutto, continua a rifiutare di prolungare i negoziati con l’Unione Europea. Questa, dal canto suo, pochi giorni fa ha fatto sapere di essere disponibile a una proroga, probabilmente fino al 31 gennaio prossimo, ma BoJo non ne vuol sapere. Le cose potrebbero cambiare da un momento all’altro.
L’asso nella manica di Boris Johnson per il futuro del Regno Unito
La spavalderia messa in campo dal Primo Ministro britannico sembrerebbe confermare la presenza di una fine strategia politica con la quale imbrigliare le opposizioni e portare, definitivamente, a compimento il piano per la Brexit.
In molti suggeriscono che Boris Johnson voglia seguire lo stesso metodo usato da Trump per vincere le elezioni: provocare gli avversari e sperare che questi rispondano come previsto. In poche parole BoJo vorrebbe continuare a stuzzicare Jeremy Corbyn per portarlo al voto, ma quest’ultimo ha mostrato più tenacia del previsto, resistendo alle angherie del conservatore.
Infatti, ora, con il Parlamento sospeso per diverse settimane, senza elezioni anticipate e con una legge che vincolerebbe Boris Johnson a chiedere un rinvio, non si riesce a comprendere quale possa essere il suo famoso asso nella manica. In molti hanno ipotizzato, appunto, le elezioni anticipate. Forse sia il Primo Ministro che il suo fedelissimo Dominic Cummings (lo “Steve Bannon” britannico) stanno sfoggiando un po’ troppa sicurezza? Oppure esiste un altro asso, oltre le elezioni?
In occasione del voto sulla legge della proroga, molti conservatori hanno votato a favore, sancendo la perdita della maggioranza. Boris Johnson, nonostante tutto, si è detto tranquillo di questo smacco, così avrebbe potuto fare un po’ di “pulizia” all’interno del partito. Senza maggioranza BoJo non ha potuto nemmeno portare il Regno Unito a elezioni anticipate (sono richiesti i due terzi).
Stando a quanto detto, quindi, la spavalderia del Primo Ministro potrebbe essere solamente una tattica per disorientare gli avversari. Alcuni analisti, però, credono che nelle sue intenzioni ci sia quello di sfruttare un cavillo presente all’interno del Fixed-term parliaments act (Ftpa) per riuscire a convocare le elezioni con una maggioranza semplice. In alternativa potrebbe architettare una sconfitta programmata attraverso un voto di sfiducia. Comunque sia, Boris Johnson ha perso la maggioranza ed è in difficoltà. Le elezioni potrebbero essere l’unica soluzione affinché il suo piano vada in porto.
Il Regno Unito e i rapporti con l’Unione Europea sulla Brexit
Dal canto suo, l’Unione Europea non è intenzionata a cedere alle richieste di Boris Johnson. Innanzitutto, il Primo Ministro ha chiesto all’UE di eliminare la clausola sul backstop tra l’Ulster e la Repubblica d’Irlanda, mettendo in serio pericolo la tenuta della pace raggiunta nel 1998. Michel Barnier ha più volte sottolineato come l’Unione non sia disposta a modificare l’accordo negoziato da Theresa May, per nessuna ragione.
I goffi tentativi dei conservatori di rinegoziare l’accordo, sbraitando a destra e a manca per spaventare l’Unione Europea, si sono frantumati in occasione della rigidità mostrata da quest’ultima nel mantenere le sue posizioni. Seppur la nuova Commissione di Ursula von der Leyen abbia aperto a una proroga, l’accordo resta quello. L’Unione ritiene troppo importante proteggere quei piccoli Paesi che costituiscono i 2/3 del totale degli Stati membri. Inoltre, si vorrebbe evitare che questi finiscano nell’orbita di potenze più grandi. Se l’Irlanda fosse lasciata da sola, la probabilità di finire nelle grinfie statunitensi, assieme agli ignari inglesi, sarebbe altissima.
Michael Gove, un conservatore della prima ora, ha affermato che se Boris Johnson non riuscisse a trattare con l’UE, il Regno Unito potrebbe ugualmente dar seguito alla Brexit entro il 31 ottobre, disattendendo la legge sulla proroga votata in questi giorni. A quest’illazione ha risposto l’ex procuratore generale e ora conservatore ribelle, Dominic Grieve: se BoJo dovesse disattendere la suddetta legge, potrebbe finire davanti a un tribunale.
In poche parole, il Regno Unito si trova in una situazione di estrema incertezza. L’aver condotto un intero Paese ai limiti dell’implosione denota una deludente irresponsabilità della classe dirigente inglese. Il fallimento di quello che una volta fu il British Parliament, l’istituzione per eccellenza, è ormai sotto gli occhi di tutti. L’aver proposto un referendum di questa portata, in un momento storico all’interno del quale serpeggia in modo evidente un pericoloso euroscetticismo, è stata una delle peggiori mosse politiche mai compiute.
E seppur David Cameron lo abbia ammesso, ormai è troppo tardi. Il dialogo con l’UE, per bocca dello stesso Michel Barnier, è in uno stato di “paralisi”. Il Parlamento britannico è ridotto a un cumulo di macerie, con un partito (quello dei conservatori) a un passo dall’implosione. Le previsioni economiche non fanno ben sperare, soprattutto con una sterlina che continua a deprezzarsi e ad essere volatile.
Non resta che spingere sull’euroscetticismo
Chissà se la classe dirigente britannica avrebbe dato seguito al referendum se avesse potuto prevedere l’impasse in cui ha spinto il proprio Paese. Il fallimento è sotto gli occhi di tutti e secondo lo stesso governo, il quale è stato costretto a rendere pubblico un dossier dai contenuti impietosi, un eventuale no deal avrebbe dei risvolti semi-apocalittici.
Questi documenti secretati, resi pubblici grazie a una legge del Parlamento, potrebbero provocare qualche apprensione anche nei brexiters più intransigenti. Boris Johnson gioca molto sull’euroscetticismo, presente nell’elettorato britannico ormai da tempo immemore. Ma l’aver reso di pubblico dominio uno scenario post-Brexit in cui la disoccupazione aumenterebbe, il PIL scenderebbe e si faticherebbe a trovare cibo e medicine, potrebbe spingere verso una permanenza in Europa, placando l’euroscetticismo dilagante, o la ricerca di un accordo a qualunque costo.
Dal canto suo Boris Johnson ha promesso di varare un programma dal valore di circa 10 miliardi di sterline per finanziare welfare, sanità e polizia per contrastare i disagi provenienti da una hard Brexit. Non si sa ancora come e dove Boris Johnson pensi di racimolare tutto questo denaro. A questi, di norma, dovrebbero essere aggiunti i 39 miliardi di debito che BoJo dovrebbe pagare all’UE per uscire. In totale fanno 49 miliardi di sterline. Alcuni sostengono che Boris Johnson metterà le mani sul tesoretto lasciato da Lord Philip Hammond, il precedente Cancelliere dello Scacchiere (l’equivalente del nostro Ministro del Tesoro), dal valore di 26 miliardi. E il resto?
Il Primo Ministro del Regno Unito, dall’alto del suo euroscetticismo, ha affermato di non voler pagare i 39 miliardi del divorzio con l’Unione Europea (Brexit Bill). Una mossa che, comunque, gli si potrebbe ritorcere contro, sia sul versante della “fiducia internazionale” che su quello giudiziario (l’UE potrebbe ricorrere all’Aja).
Ad ogni modo la situazione sembrerebbe essere in stallo. L’ingiustificata spavalderia mostrata da Boris Johnson potrebbe rivelarsi dannosa per il futuro del Paese. Continuare ad aizzare la folla, dandole in pasto tutto l’euroscetticismo possibile, non è sicuramente il miglior modo per affrontare un problema così imponente.
L’unica alternativa possibile sarebbe quella di cercare un accordo all’interno del Parlamento per uscire dall’UE il più dignitosamente possibile. L’irresponsabilità, figlia di un sovranismo che guarda più alla forma che alla sostanza, dovrebbe essere per un attimo accantonata per il bene del Paese.
Donatello D’Andrea