Lo scrittore e poeta siciliano Gesualdo Bufalino nel 1988 pubblicò con la casa editrice Bompiani il suo terzo romanzo: Le menzogne della notte. Nel mese di luglio del medesimo anno il suo sontuoso capolavoro fu insignito del premio Strega. Gesualdo Bufalino senza ombra di dubbio fu il cantore della totale ossimoricità dell’arte e dell’esistenza stessa, ragion per cui il tema fondamentale del suo romanzo pseudo-storico fu proprio il dissidio interiore all’individuo scaturito dalla plurivocità e dalla reversibilità tra vero e falso. Lo stesso autore siciliano nel tentativo d’indentificare il genere anomalo della sua opera, la definì: «fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria»; svelando in tal modo una personale visione ultima del reale in quanto finzione, in quanto inafferrabilità, in quanto menzogna nella notte fonda dove tutto è sublimazione onirica e angoscia di morte.
Dunque, nella sua opera Gesualdo Bufalino mise a fuoco il rapporto originario, speculare e fantasmagorico che s’instaurerebbe tra narrazione e menzogna, poiché l’atto stesso del raccontare un ricordo trasmuterebbe quest’ultimo in una fiabesca mistificazione. Difatti, la lusinghevole immagine del ricordo verrebbe così artefatta e la ricercata verità, di conseguenza, si rivestirebbe d’un intarsiato velo di Māyā che diverrebbe non più squarciabile: la memoria – come la realtà – sarebbe tremendamente ingannevole.
Per l’appunto, lo scrittore di Comiso, amante del manierismo novecentesco, creò una sequela di storie introspettive e allegoriche intrise di sovrasensi riguardanti un gruppo di condannati a morte durante la loro ultima notte in un penitenziario ubicato su una fantomatica isola del Regno delle Due Sicilie pressappoco al tempo di Ferdinando II di Borbone. Al netto di ciò, Gesualdo Bufalino volutamente non fornì coordinate geografiche e storico-politiche esatte giacché l’intera opera non fu concepita come una ricostruzione realistica bensì come uno stravolgimento rievocativo, sperimentale e melodrammatico di quel periodo ottocentesco tra simbolismi, anacronismi, intertestualità, gusto risorgimentale, echi liberali e carbonari. Pertanto, la predilezione per il teatrale, per il metafisico e lo stile letterario arcaizzante, barocco e funambolico dell’autore siculo darebbero adito, secondo Nunzio Zago, a uno «straniamento cronotopico». Ciò, quindi, deriverebbe da un adeguamento a una scrittura iperletteraria che non solo non consentirebbe un cristallino delineamento dell’orizzonte diegetico, bensì porrebbe in evidenza la perdita irreversibile dell’immagine oggettiva e naturale degli elementi dell’esistente.
Dunque, le raffinate e inusuali scelte lessicali e l’intempestivo paradigma sintattico-narrativo adoperati da Gesualdo Bufalino furono le basi su cui strutturò la sua indagine esistenziale e retrotopica che lo condusse alla perturbante ipotesi dell’inverosimiglianza e della vanità del tutto.
«Se una lezione ho imparato riguardo a questa cosa strana ch’è la vita, è che conviene viverla come se… come se fossero reali tutte le larve che ci siamo inventate (amore, amicizia, famiglia, gloria, Dio…), di cui si maschera il niente». (Gesualdo Bufalino, Bluff di parole).
Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte: ambiguità e indecifrabilità dell’esistente
All’inizio del romanzo di Gesualdo Bufalino ci s’imbatte in una dedica: «A noi due»; un palese rimando ironico alla battuta finale del Père Goriot di Honoré de Balzac, pronunciata in segno di sfida verso la società francese dal giovane Eugène de Rastignac mentre contempla il panorama parigino dall’alto. Però è evidente che già alle soglie del romanzo s’insinua una sommessa ambiguità semantica, pertanto, la dedica in esergo è forse un augurio, una sfida oppure un’intimidazione?
Dunque, il romanzo è suddiviso in quattordici capitoli e si svolge nell’arco d’una nottata all’interno d’una cupa cella sospesa nel tempo, ovvero nell’attesa della morte mediante decollazione d’alcuni sovversivi rei confessi di lesa maestà. I quattro condannati sono il barone Corrado Ingafù, il poeta Saglimbeni, il soldato Agelisao degli Incerti e lo studente Narciso Lucifora, adepti tra i più autorevoli della società segreta guidata dal misterioso nemico della corona: il cosiddetto Padreterno.
I protagonisti di questa vicenda sono come naufraghi d’un mondo che non è disposto più a riconoscerli e ad accettarli: per loro non v’è redenzione alcuna. Ciononostante, alla vigilia dell’esecuzione il Governatore, appellato Sparafucile, propone un patto mefistofelico ai quattro congiurati: la loro salvezza in cambio del nome scritto su un cartiglio anche solo da uno d’essi – col privilegio dell’anonimato – dell’eminenza grigia che tesse le trame della cospirazione, ossia Padreterno. Non a caso, Gesualdo Bufalino sfrutta tale ambiguità terminologica per far sì che lungo l’opera s’insinui un risvolto metafisico-religioso nell’investigazione politico-giudiziaria diretta dall’ostinato Sparafucile. Da qui ha, quindi, inizio la tribolata e irrisolvibile ricerca introspettiva dei pària.
«’’Io,’’ disse il vecchio, ’’vi vedo come sgarro di calcolo nell’abaco del creato. Punirvi è la mia estasi e la mia dannazione. Punirvi, guarirvi, purgando l’eccesso e l’errore che voi siete. Poiché, se voi ambite il martirio come il fedele la comunione dell’ostia, la mia passione è di farmene esecutore. Io sono la Giustizia e il Castigo, una spada senza fodero, il carnefice e il cerusico provvidenziale. Su questo globo inzuppato di sangue, dove tutto che vive dev’essere immolato senza fine sino alla consumazione del tempo, sino alla morte della morte…’’ […] ’’Io non pretendo convincervi, se non bastarono al vostro fervore le verghe macerate nell’acqua. Vengo solo a proporvi quel patto e, in cambio d’un uomo, a regalarvi la vita. Quel nome, non di Padreterno ma di reale Anticristo, uno di voi me lo dirà, se vorrà. E sarete tutti domani a quest’ora sul ponte d’una nave diretta all’Oceano. Se no, sarete niente: quattro busti e quattro teste in un sacco, nel fondo del mare’’». (Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte).
Vengono così condotti nel confortatorio affinché riflettano sulla loro dissennata esistenza e sulla sadica possibilità concessagli, che mina la loro integrità morale e la loro fede nell’idea di sacrificarsi per la libertà dei popoli a detrimento dei tiranni. Difatti, nell’animo dei condannati serpeggia l’alito agghiacciante della morte e, di conseguenza, si rendono coscienti del fatto che l’urna in cui riporre il foglio con il fatidico nome è l’unico modo, seppur disdicevole, per evadere da quell’inferno insulare su cui si trovano e patiscono senza tregua. La morte in sé e per sé non è logicamente accettabile, ragion per cui in essi, nonostante siano destinati a perire, l’imprevedibilità della morte stessa lascia in sospeso un eterno interrogativo: in quale momento è necessario morire?
Proprio in questo frangente appare fasciato da bende insanguinate e disteso su un letto la figura del famigerato brigante sanguinario e devoto conosciuto come frate Cirillo; ed è tramite lui che i malfattori accettano di raccontare, a turno, i frangenti cruciali della propria vita pur di rifuggire la presenza tetra e straziante della morte e dare così un senso al proprio calvario e al proprio imminente epilogo sul patibolo, combattendo così l’oblio con la memoria.
Gesualdo Bufalino crea in tal modo un Decamerone Notturno in cui ogni narrazione in un’atmosfera irreale segue degli intermezzi composti da riflessioni collegiali che lasciano intravedere sullo sfondo l’inafferrabilità della vita. Il romanzo medesimo, nella sua cornice dinamica, si serve dei racconti minori come forze centripete per far sì che confluiscano in un unico tragico esito. Si snodano, quindi, gli aneddoti auto-biografici dei moribondi in uno stato oniroide tra duelli, stupri, tradimenti, omicidi, taedium vitae, ignavia e ideali. Il primo racconto di Narciso ha il sentore d’un’avventura pittoresca e stendhaliana, il racconto del barone è invece intriso di visionarismo libertario e conflittualità ideologica, il racconto di Agelisao rispecchia il suo universo soldatesco e vendicativo figlio d’una mesta e dissoluta vita da orfano, mentre l’ultimo racconto di Saglimbeni è poetico, trasognante e passionale. In ciascuna confessione e trasposizione d’un intimo universo offeso aleggia la presenza indefinibile del Padreterno, d’interrogativi esistenziali senza risposta e di quel senso d’inconsistenza della realtà.
«[…] uguali tutti, io e voi, a spaiati lacerti d’un cartolario disperso; comparse, io e voi, d’una messinscena che non finisce, maschere d’un eccentrico ed esoso quiproquò…” […] allora mi chiedo: io, chi sono? Noi, gli uomini, chi siamo? Siamo veri? Siamo dipinti? Tropi di carta, simulacri increati, inesistenze parventi sul palcoscenico d’una pantomima di cenere, bolle soffiate dalla cannuccia d’un prestigiatore nemico? Se così è, niente è vero. Peggio: niente è, ogni fatto è uno zero che non può uscire da sé. Apocrifi noi tutti, ma apocrifo anche chi ci dirige o raffrena, chi ci accozza o divide: metafisici niente, noi e lui, mischiati a vanvera da un recidivo disguido: nasi di carnevale su teschi colmi di buchi e d’assenza… Ho visto un quadro a Parigi, or è un anno. Rappresentava una scimmia in un ateliere, con tavolozza e pennelli. Saremmo questo, noi creature di lacrime? Gli scarabocchi d’una scimmia pittrice? Se non pure fantocci in piedi, nel mezzo di una stanza, moltiplicati da due specchi che si fronteggiano?». (Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte).
Dunque, per ognuno di loro l’espediente salvifico risulta a tutti gli effetti l’opportunità per una profonda analisi interiore alle prese con la propria oscillante e sfumata identità e con la costante frantumazione e moltiplicazione d’un io scisso e indecifrabile. Quest’inquieta ricerca ruota intorno allo scacco gnoseologico-ontologico di cui sono vittime: tutto è incerto tra la memoria e il sogno, tra il vero e il falso. Perciò, tale ambiguità, vera cifra dell’intera l’opera, genera continui slittamenti di senso, fino alla fine di tale scepsi nichilistica, finché non si verifica un coup de théâtre che muta drasticamente il corso e l’interpretazione degli avvicendamenti. Forse nella perseverante individuazione dell’ignoto Padreterno il diabolico Sparafucile è stato depistato dai congiurati; probabilmente, a nocumento del prestigio monarchico, il burattinaio s’è rivelato un ingenuo burattino tratto in inganno. O forse tutto è stato esclusivamente il riflesso onirico d’un coacervo di simulacri, consolidati dal senso del dovere, da pie illusioni e da qualche barlume di speranza religiosa.
Cosicché, Gesualdo Bufalino riprende l’eredità leopardiana, pirandelliana e borgesiana e con il virtuosismo che lo contraddistingue traspone un ritratto della vita che s’alterna tra buonafede e impostura, tra verità e menzogna, dove il dis-ancoramento, il caos e il totale naufragio esistenziale caratterizzano la sorte del soggetto che in ogni modo tenta d’esorcizzare quel nulla graffiante e seducente a lui connaturato. Infatti, lo scrittore siciliano mediante la suspense che si dipana lungo Le menzogne della notte infonde una sensazione di viscerale inquietudine: la morte è un qualcosa d’imponderabile, è un portale che non dà su niente.
«Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». (Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri).
Qui il pensiero umano s’inabissa, s’auto-sopprime quando tenta in tutti i modi d’auto-rappresentarsi tutto ciò. La morte è lì, mostruosa, unica nel suo genere, in rapporto a niente del tutto; umanamente impensabile, assurda, e in tal senso è una costante sfida all’ordine del discorso e al significato del pensiero. Non è comprensibile attraverso categorie universali, ogni forma di sapere è disarmata dinanzi a essa. Dunque, la morte si rivela come la realizzazione stessa dell’impossibilità, come un buco nero che inghiotte e annulla tutte le altre possibilità d’essere. D’altra parte, è proprio sotto la minaccia di questa impossibilità che una vita umana diviene possibile. Solo all’ombra della morte, infatti, la breve e fioca luce della vita è in grado di ridestare il soggetto e d’irradiare la realtà circostante, foss’anche solo immaginata, così da aprirlo allo stupore per il semplice fatto che qualcosa esista. I personaggi del romanzo bufaliniano rappresentano, difatti, delle singolarità universali capaci di assumere su di sé la dimensione universale del disfacimento umano, dell’irreversibile tracollo ed erosione dell’esistenza al confine sdrucciolevole tra io e inconscio, tra finito e infinito, tra la vita e la morte.
L’opera, forse, nella sua trasposizione dell’oggettivo nel soggettivo esprime un penetrante significato: anelare alla vita comporta attraversare la propria disintegrazione ch’è in se stessa già la sua antitesi, ossia una forza d’integrazione. Pertanto, nel linguaggio ardito, pregevole e dal sapore d’epoca del funesto demiurgo Gesualdo Bufalino si cela la disperazione della condizione umana però, al contempo, nella sua esplicita artificiosità si scruta, in fondo, un estatico edonismo che si protrae a dispetto della trionfante danza della morte.
«Potete considerare la vita come un episodio inconcludente, che turba la calma della non esistenza». (Arthur Schopenhauer).
Gianmario Sabini