«Homelessness»: gentrificazione, povertà urbana ed esclusione
Fonte Immagine: CNN

Nell’opinione pubblica la questione dell’homelessness non viene mai discussa in quanto fenomeno sociale e politico. Bensì, si tende ad ascrivere al singolo individuo le cause e anche le colpe della propria inumana condizione: essere senza dimora. Tale discorso pubblico non solo individualizza e depoliticizza il problema degli homeless, ma alimenta finanche rappresentazioni stereotipate e narrazioni romanticizzanti o stigmatizzanti che espungono l’elemento interazionale e sistemico alla base del fenomeno e che, di conseguenza, consolidano l’identificazione tout court delle persone senza fissa dimora con questa loro condizione d’indigenza. In questo modo si omette del tutto il tema delle politiche abitative, della speculazione edilizia, della gentrificazione, dell’accessibilità agli alloggi, della prevenzione degli sfratti, dei tagli al welfare, della precarietà lavorativa, del disagio psichico e delle disabilità fisiche, così come dei fenomeni di atomizzazione sociale e delle discriminazioni razziali, sessuali e di genere.

È, quindi, evidente il processo di costante spoliazione, ghettizzazione, patologizzazione e invisibilizzazione degli homeless che difatti vengono considerati e ritratti dall’immaginario collettivo come falliti, devianti, tossicodipendenti e delinquenti oppure come ricolmi di autenticità, saggezza e umanità e persino solidali con il prossimo nonostante tutto. Questi cliché misti tra idiosincrasia e agàpe cristiana rispecchiano, in realtà, una chiara volontà e prassi politica: controllare e normare i gruppi sociali minoritari, inasprire le leggi anti-immigrazione e sulla sicurezza urbana che generano maggiore marginalizzazione, iper-sfruttamento e maggiori pene detentive, per di più adoperando l’architettura ostile come dispositivo d’esclusione ed espulsione di determinate categorie di persone, ritenute fittiziamente indecorose e spesso criminalizzate poiché utilizzano lo spazio pubblico in modi che differiscono dalla norma dominante.

In tal modo, chi non ha più neppure la parziale possibilità di riscatto data dal welfare state deve essere duramente represso sia perché la sua disperazione non travolga la quiete dei benestanti sia perché l’epidemia di povertà non faccia trasparire la marcescenza di un modello ormai feticizzato. Pertanto, allo scomparire dello stato sociale corrisponde necessariamente l’egemonia indiscussa dello stato penale.

In sintesi, tutto ciò serve a condurre una guerra contro i poveri, anziché una lotta alla povertà. Ciò riproduce un approccio fondato sulla responsabilizzazione individuale che implica inevitabilmente l’occultamento delle cause strutturali del fenomeno sociale della homelessness e di conseguenza rafforza il totale disimpegno pubblico in merito all’abolizione di uno stato di cose presente inaccettabile.

La subalternità sociale ed economica non è una condizione da ricondurre alla sfortuna o al caso, né ai meriti e alle colpe individuali, al netto della retorica ormai istituzionalizzata volta a giustificare e normalizzare proprio tutto ciò. Piuttosto, è il prodotto di una specifica organizzazione sociale delle relazioni tra individui, dei rapporti di forza che l’innervano, nonché del modo in cui – relativamente ad alcune matrici culturali che confluiscono nella determinazione delle forme sociali – si verifica la soggettivazione e l’assoggettamento: soggetti privilegiati e soggetti sacrificabili.

Mediante tali articolazioni di geometrie del dominio, di forme di bio-politica, di logiche estrattiviste e d’inarrestabili processi di verticalizzazione del potere si palesa il totale asservimento del bíos ai princìpi-motore dell’auto-perpetuantesi ciclo di accumulazione capitalistica: la proprietà privata e il plus-valore.

«Come scrive Marx: «l’uomo reale è riconosciuto solo nella figura dell’individuo egoista, l’uomo vero solo nella figura del citoyen astratto». Quindi, solo nella misura in cui un uomo saprà formattare e reprimere la propria molteplicità, egli avrà il diritto d’essere considerato un cittadino, cioè un «uguale». […] Uno di questi racconti ricorrenti è quello del clochard che lucida umilmente le scarpe dei passanti e che – miracolo delle società degli uomini senza qualità – diventa un giorno miliardario. E questo non grazie a una sua qualità intrinseca, a una sua origine peculiare, ma grazie a qualità che sono alla portata di «chiunque». Beninteso, il fatto d’essere disoccupato o d’arrivare a stento a fine mese non sono il portato di un’intera società, di una storia ben precisa. Sono un errore del tutto autonomo e del tutto libero. Tutti possono diventare miliardari, è questa l’uguaglianza! Ci si muove dal principio del dover fabbricare l’uomo ideale. L’uomo così com’è, è inadeguato. Si tratti dell’uomo nuovo del consumismo, dell’individuo senza qualità del capitalismo, tutto sembra dimostrare la nostra inadeguatezza. Innumerevoli sedute psicoanalitiche, lunghe auto-critiche a cui seguono infinite promesse di cambiamento, sempre nuovi manuali di self help hanno fatto sì che la nostra vita fosse scandita senza sosta dal rintocco della triste certezza d’essere in difetto. Le immagini identificatorie dell’uomo «come si deve» del capitalismo sono rozze e invadenti e propongono agli uomini e alle donne che ne accettano la disciplina un progetto che non mira ad altro che alla loro «felicità». Le società moderne inducono in noi una condizione di permanente sofferenza, perché ribadiscono l’irriducibile distanza che ci separa dalla norma. Una costante negazione della realtà in nome di un «dover essere».

(M. Benasayag, Elogio del Conflitto).

Homelessness
”L’odio” – 1995 (ArteSettima)

Homelessness: capitalizzazione urbana, decoro ed emarginazione

Il degrado occupa uno spazio crescente nell’opinione pubblica, difatti è percepito come un problema sociale molto più rilevante anche rispetto alla piaga delle diseguaglianze sociali. Pertanto, ne deriva un corollario di politiche ad hoc atte a sorvegliare e punire le esistenze di persone, già gravemente emarginate, considerate potenzialmente minacciose per il semplice fatto d’occupare con i propri corpi lo spazio pubblico. Nell’ambito dell’homelessness, i più poveri tra i poveri vengono criminalizzati ed espulsi con metodi polizieschi in nome del decoro, della sicurezza e della riqualificazione urbana. Ciò è il sintomo della privatizzazione dello spazio pubblico, connesso alla sua disciplinarizzazione, cioè a un controllo capillare associato alla restrizione dei suoi modi di fruizione.

Il sociologo britannico David Harvey descrive la capitalizzazione urbana in quanto processo che non solo coincide con l’iper-valorizzazione degli immobili basata sul sistema della rendita, ma financo con la mercificazione dei diritti e dello spazio tutto – paesaggi antropici e naturali – e ciò costituisce una costante aggressione a detrimento del suolo pubblico e degli spazi di socialità già soggetti a una progressiva erosione. Sicché, dalla contrazione del livello d’accessibilità degli spazi pubblici ne scaturisce la drastica riduzione dei gruppi sociali abilitati a fruirne, in conformità alla propria capacità reddituale, per un suo utilizzo volto esclusivamente al consumismo. Infatti, lo smantellamento delle politiche pubbliche locali, la decurtazione dei servizi minimi in nome dell’austerity a favore di forme di governance ibride e predatorie di pubblico-privato e delle corporation ha fatto sì che venisse eliminata qualsivoglia vigilanza pubblica sulla rendita nel mercato delle abitazioni. Ciò ha accelerato i processi di monopolizzazione, gentrificazione e di polarizzazione spaziale. Insomma, è criminalizzato un qualsiasi uso dello spazio che sia difforme dalle logiche mercatiste.

Si sgomberano così gli spazi occupati, si moltiplicano le procedure di sfratto, s’investe massicciamente nella videosorveglianza e nella presenza di forze dell’ordine, si reprime qualsivoglia corrente politico-artistico-culturale ritenuta eversiva, aumentano vertiginosamente i canoni di locazione, vengono dismessi gli alloggi popolari e sparisce financo qualsivoglia progetto d’edilizia popolare. Nel frattempo, le medesime amministrazioni locali offrono nuovi incentivi per attrarre un turismo massivo. Gli investimenti pubblici e le tutele amministrative, difatti, sostengono i lauti profitti dei rentiers, delle compagnie low cost, delle piattaforme digitali come AirBnB e degli speculatori privati – stranieri e non – che edificano complessi residenziali, studentati elitari, hotel di lusso e centri commerciali. Quest’ultimi rappresentano realtà finanziarie del tutto estranee ai reali bisogni del contesto urbano ma aderenti a quelle del nuovo cittadino/utente.

Homelessness
Michele Lapini – ”Requisizione popolare, Bologna” (Flickr)

Pertanto, la simbiosi tra finanza e mercato immobiliare attua un vero e proprio stravolgimento del concetto stesso di abitazione che si tramuta in funzione delle logiche di rendimento monetario e di speculazione. In tale contesto di darwinismo urbano la città viene investita da un processo di finanziarizzazione, così il valore degli immobili abbandona risolutivamente il valore d’uso e a loro volta divengono strumenti di produzione di utili. Così i plus-valori immobiliari sono determinanti nella definizione degli spazi cittadini, ma tuttavia i frutti di tale aumento di valore non sono ridistribuiti in seno alle comunità originarie: vanno solo a incrementare il valore degli stessi immobili, con la conseguente distruzione dell’ambiente e di buona parte del tessuto sociale dell’area interessata.

Risultano chiare le dinamiche del capitale che in ogni sua forma – dai flussi immateriali di denaro ai flussi materiali di persone, beni e servizi – si muove liberamente nello spazio al fine di fagocitare, d’accumulare e di riprodurre se stesso. Però è in questo divenire forma concreta, ferro e cemento, strade e palazzi, che il capitale, legandosi all’urbanizzazione, smarrisce la sua peculiare caratteristica di mobilità. Perciò, in presenza di un paesaggio geografico che ciclicamente non corrisponde più alle esigenze e ai ritmi di produzione, accumulazione e reinvestimento, gli operatori privati si ritrovano dinanzi alla costante urgenza d’adattare, distruggere, ricostruire, riconfigurare gli spazi per assicurare la necessaria mobilità e i vitali surplus derivanti dai flussi d’investimento e di denaro.

Homelessness: apartheid o diritto all’abitare

È evidente che da tali dinamiche politico-economiche, atte a riprodurre isolamento sociale, territoriale e nuove forme di colonialismo, di segregazione e di povertà urbana, deriva il drenaggio di fondi pubblici, la trasfigurazione degli spazi urbani e il fenomeno dell’homelessness. Scrive Leslie Kern: «Le conseguenze specifiche della gentrificazione dipendono dalla posizione degli individui rispetto a sistemi di potere legati a genere, etnia, sessualità, età e abilità. […] la gentrificazione e altre modalità di sviluppo urbano sono estensioni non metaforiche della colonizzazione, in quanto rafforzano l’allontanamento storico delle popolazioni indigene mediante metodi coloniali di costruzione delle città e dinamiche di marginalizzazione e spoliazione nello spazio urbano ancora in atto». Dunque, attraverso tale violento e insanabile conflitto tra le esigenze del capitale e l’identità fisica e sociale dei contesti urbani, le città sono costruite e sono al servizio dei profitti o delle persone?

Homelessness
(Militanza Grafica)

È riconosciuto come essere umano soltanto chi appartiene alla cerchia dei sopraffattori della globalizzazione. Così ai reietti resta soltanto una funzione sociale: quella dell’esempio deterrente. Il loro infausto destino deve stimolare gli ultimi a dimenarsi a tutti i costi pur di trovar spazio nel frenetico movimento di valorizzazione del capitale.

Dunque, il diritto all’abitare è sempre più una questione di classe, di giustizia sociale e di emancipazione. Il fenomeno dell’homelessness non è altro da noi, è un problema collettivo che richiede una risposta collettiva. Chiunque è molto di più rispetto alle inique condizioni materiali che sperimenta. Scrive la sociologa Daniela Leonardi: «Contrastare la homelessness vuol dire intervenire per ridurre le diseguaglianze. Contrastare la homelessness vuol dire dar spazio di parola alle persone che fanno l’esperienza di trovarsi senza casa. Contrastare la homelessness vuol dire parlare di politiche per l’abitare. Strumenti di contrasto alla homelessness sono gli sportelli di resistenza agli sfratti, le occupazioni di edifici abbandonati e autorecuperati, perlopiù attuate da realtà autorganizzate al fine di rivendicare pubblicamente condizioni di vita migliori per tuttǝ».

Da questa consapevolezza scaturisce la necessità di creare spazi di contro-potere e di auto-difesa attiva. Ma anche e soprattutto l’urgenza di un radicale ripensamento dell’organizzazione e dei paradigmi dell’attuale e insostenibile modello societario.

Gianmario Sabini

Gianmario Sabini
Sono nato il 7 agosto del 1994 nelle lande desolate e umide del Vallo di Diano. Laureato in Filosofia alla Federico II di Napoli. Laureato in Scienze Filosofiche all'Alma Mater Studiorum di Bologna. Sono marxista-leninista, a volte nietzschiano-beniano, amo Egon Schiele, David Lynch, Breaking Bad, i Soprano, i King Crimson, i Pantera, gli Alice in Chains, i Tool, i Porcupine Tree, i Radiohead, i Deftones e i Kyuss. Detesto il moderatismo, il fanatismo, la catechesi del pacifismo, l'istituzionalismo, il moralismo, la spocchia dei/delle self-made man/woman, la tuttologia, l'indie italiano, Achille Lauro e Israele. Errabondo, scrivo articoli per LP e per Intersezionale, suono la batteria, bevo sovente per godere dell'oblio. Morirò.

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