Fino a sei giorni fa, l’opinione pubblica internazionale aveva sentito parlare ben poco di Kamala Harris. La senatrice cinquantacinquenne della California, figlia di un giamaicano e di un’indiana, si era ritirata troppo presto dalle primarie democratiche per poter far capire bene chi fosse e quali idee politiche avesse. A stento si ricordava di quella polemica con Joe Biden sui suoi trascorsi degli anni Settanta, quando aveva inopinatamente collaborato con personaggi rappresentativi dell’universo politico segregazionista. Da quando lo stesso Biden, però, l’ha scelta come possibile vicepresidente, Kamala Harris ha la possibilità di decidere non solo la corsa delle presidenziali del 2020 contro Trump, ma anche quella del 2024.
Kamala Harris vicepresidente: le ragioni di una scelta
Perché Biden avrebbe dovuto scegliere Kamala Harris come mate della sua campagna elettorale presidenziale, considerati i turbolenti – per quanto brevi – trascorsi delle prime fasi delle primarie? Potrebbe trattarsi di un autogol, vista anche la dialettica vibrante dell’ex procuratrice capo della California (che a volte ricorda quella di Sanders) invece che quella tranquillizzante (e talvolta narcotizzante) del dominatore della nomination democratica? In realtà, la scelta di Kamala Harris da parte di Biden, nella prospettiva della sfida di novembre contro Trump, è stata intelligente e consapevole sia da un punto di vista politico che di immagine.
Sotto il primo profilo, la Harris tende a “completare” Biden su temi scottanti e profondamente attuali, come la questione dei diritti delle minoranze: la sua condizione di figlia del meltin’ pot americano ne fa l’icona perfetta dell’integrazione etnico-sociale, un tema su cui Biden, nonostante il patrimonio di popolarità ereditato dalla vicepresidenza durante l’era Obama, non è mai riuscito a sfondare. Per questo motivo, il tandem Biden-Harris può risultare vincente anche per l’eco mediatica che può suscitare l’accostamento tra un rassicurante bianco agiato e una donna di origini miste – afroamericana e asiatica – con una profonda esperienza e conoscenza delle istituzioni statunitensi. Non certo una sprovveduta, quindi, né inerme di fronte alla retorica razzista e misogina usata spesso da Trump per attaccarla e canzonarla.
Da un punto di vista strettamente ideologico, poi, la carriera da magistrato di Kamala Harris parla chiaro ancor più di quella da senatrice. In effetti, all’epoca della sua esperienza nelle aule giudiziarie californiane, la candidata vicepresidente si è schierata spesso a favore degli ultimi e delle fasce sociali più disagiate. Si tratterebbe di una scelta, quella di Kamala Harris, che strizzerebbe l’occhio anche a quella parte di cittadinanza profondamente penalizzata dalle politiche sociali inesistenti dell’amministrazione Trump.
Con questa scelta inoltre c’è il tentativo di conquistare il favore di quell’elettorato democratico che si riconosceva in Bernie Sanders o in Elizabeth Warren, esponenti dell’ala considerata più radicale del partito democratico ed uscita perdente dalla corsa contro Biden, il quale invece rappresenta un’America che oggi chiede competenza e stabilità, più che un approccio “rivoluzionario” alle questioni sempre irrisolte della politica USA.
Un “moderatismo militante”
Si corteggiano i voti della sinistra più radicale, d’accordo, ma con la scelta di Kamala Harris come secondo membro del tandem presidenziale si cerca una vera e propria rottura col passato? Sembra di no. La senatrice californiana ha fatto di un moderatismo progressista e militante, ancorato alle più nobili rivendicazioni etnico-sociali ma non del tutto identificato con esse, il caposaldo della propria azione politica in Senato, e ha ribadito questa sua visione nelle ultime settimane.
Ecco perché deve essere piaciuta a Biden: Kamala Harris è “progressista ma non troppo”. Sa farsi valere sulle questioni più spinose per le quali è necessaria una spinta più forte e decisa, che l’anziano candidato presidente non ha né fascino né credibilità per assicurare, ma non si spinge tanto lontano da apparire come una pseudo-socialista alla Sanders. Ad esempio, è sempre stata favorevole all’assistenza sanitaria pubblica, ma mantenendo comunque un ruolo nel sistema (per quanto minimo), a favore delle compagnie assicuratrici.
Le campagne di Harris per l’aumento dei salari minimi e medi sembrano concepite apposta per incontrare le rivendicazioni dei ceti più poveri e dei giovani, storicamente inclinati a sinistra, ma anche per sedurre le larghe folle di operai di un’industria manifatturiera americana sempre più in crisi nelle aree centro-occidentali del Paese, cui Trump, nonostante le promesse di questi anni (che gli avevano garantito la vittoria nel 2016), non è mai riuscito a venire incontro a causa della propria incompetenza.
Proprio nei confronti dei disastri dell’amministrazione di “The Donald” si sono concentrati i primi attacchi mediatici sferrati da Kamala Harris, che ha accusato il presidente di essere il principale responsabile della pessima gestione della pandemia, nonché della crisi economica collaterale. La capacità di aggredire l’avversario politico è un’altra delle doti della senatrice californiana ritenuta decisiva da Biden per includerla nel ticket del 2020: come fanno notare alcuni osservatori, gli analisti politici già pregustano lo scontro dialettico tra Mike Pence, secondo di Trump, e Kamala Harris.
Tra il 2020…e il 2024
Se dovesse vincere le presidenziali 2020, il settantottenne Joe Biden non si ricandiderà certo per un secondo mandato. È sulla base di questa considerazione che la scelta di Kamala Harris come vicepresidente risponde anche alla domanda sull’ipotetica successione al prossimo presidente democratico. A patto che un’eventuale presidenza Biden diventi un successo politico, la californiana potrebbe aver già prenotato la poltrona nello Studio Ovale con quattro anni di anticipo.
C’è anche chi prefigura uno scenario inedito nella gestione del potere alla Casa Bianca tra il 2020 e il 2024: con Biden presidente, sarebbe in realtà la Harris a curare la gestione “quotidiana” della politica di governo; l’anziano Joe risulterebbe dunque più un personaggio di facciata, adatto a una pacifica transizione dai disastri di Trump a una ripresa economica e sociale auspicata dalla maggioranza degli americani (che oggi voterebbe democratico), ma indubbiamente difficile.
Il ticket Biden-Harris, dunque, sarebbe stato costruito per rivelarsi vincente non solo nell’immediato, ma anche in prospettiva. Sembra averlo capito il grosso dell’establishment democratico, che si è subito attivato a sostegno dei due candidati; l’ha realizzato anche un personaggio influente e decisivo come Michelle Obama, che proprio all’apertura della convention democratica di Milwaukee, praticamente deserta a causa della pandemia, si è subito sbilanciata a beneficio di Biden e Harris contro Trump, il «presidente sbagliato».
L’impressione, perciò, è che a novembre sia già in gioco la corsa per il 2024: una corsa che, grazie a una buona mossa (per una volta) del vecchio volpone Biden, potrebbe cominciare sin dal 2020 all’insegna non solo della multi-etnicità incarnata da Harris, ma soprattutto prefigurando il sogno del femminismo americano: il primo presidente donna in 250 anni di storia americana. Reazionari e populisti trumpiani permettendo.
Ludovico Maremonti