Nella mattinata di giovedì 14 ottobre, a Beirut, gli scontri tra i militanti sciiti di Hezbollah e Amal da una parte e la falange cristiano-maronita chiamata Forze libanesi dall’altra hanno lasciato sul campo sei morti e una trentina di feriti.
I militanti di Hezbollah (il «Partito di Dio», movimento e partito islamico sciita, filoiraniano) e di Amal (un acronimo che sta per «Corpi della Resistenza Libanese», movimento politico e militare creato dall’imam sciita Musa al-Sadr), marciavano in corteo verso il Palazzo di Giustizia contro il giudice Tarek Bitar, impegnato nelle indagini sull’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020, che provocò più di 200 morti, settemila feriti e trecentomila sfollati.
Bitar, nei giorni scorsi, era stato pubblicamente accusato dal leader di Hezbollah Hassan Nassrallah di aver «politicizzato il processo» sul disastro di Beirut, e per aver emesso un mandato di cattura nei confronti di Ali Hassan Khalil, braccio destro del Presidente del Parlamento libanese Nabih Berri (del partito Amal) e «membro anziano di Amal e alleato di Hezbollah».
Il corteo era composto da alcune centinaia di militanti: «non un esercito, ma compatti» scrive oggi La Stampa, mentre Il Manifesto afferma che in molti fossero armati, «come da consuetudine». Al momento dell’inizio degli scontri, il gruppo di manifestanti si trovava nei pressi di una zona chiamata Tayyouneh, periferia della capitale libanese, crocevia di quartieri musulmani come Ciyah e Ain al Remmaneh, storica roccaforte della destra cristiana maronita e luogo simbolo della guerra civile che ha insanguinato il Libano tra il 1975 e il 1990.
Improvvisamente, gli spari hanno interrotto gli slogan scanditi dai militanti sciiti: alcuni cecchini avevano aperto il fuoco sulla manifestazione. In tutta risposta, ben presto sono comparsi, dalle strade laterali, i militanti di Hezbollah equipaggiati per rispondere al fuoco. Sui social network correvano quasi in contemporanea le prime immagini degli scontri: uomini in passamontagna e ak-47 che sparano verso alcuni palazzi, qualcuno con addirittura un RPG. Più tardi sarebbero arrivate anche le immagini delle prime vittime.
Dopo gli scontri durati tre ore, con un comunicato ufficiale, Hezbollah e Amal hanno attribuito l’inizio delle violenze ai miliziani delle Forze Libanesi, presumibilmente appostati sui tetti, accusati di aver aperto il fuoco mirando alla testa dei manifestanti. I morti sono quattro militanti di Amal e uno di Hezbollah. La sesta vittima è una giovane donna, madre di cinque figli, abitante di Tayyouneh, a quanto pare colpita da un proiettile vagante mentre stendeva il bucato sul balcone di casa.
A seguito degli scontri tra Hezbollah, Amal e le Forze Libanesi, lo spettro della guerra civile è oggi in primo piano nelle ipotesi riguardanti il futuro del Libano. Gli scontri di giovedì, infatti, si inseriscono in un contesto estremamente grave per il Paese dei cedri. La svalutazione della lira è da tempo incontrollata (negli ultimi tre giorni si è passati da 13mila a 21mila lire per un dollaro). La corruzione di una politica intrinsecamente legata al settarismo religioso appare senza soluzione. Le alleanze estere delle forze in campo che si contendono il governo stringono sempre di più la morsa che soffoca la popolazione libanese. Come se non bastasse, il Libano si è trovato al buio a causa del blackout che ha colpito il Paese per mancanza di elettricità e carburante.
Hezbollah e Amal, le forze sciite colpite ieri a Beirut, avrebbero poi accusato le Forze Libanesi di aver condotto un agguato per conto di potenze straniere, cioè di Usa e Israele, si legge su La Stampa. Che questa ipotesi sia una fantasia di complotto o un possibile scenario non è ancora chiaro. Resta il fatto che, se si parla di ingerenze straniere in Libano, una delle potenze in primo piano nel Paese dei cedri è l’Iran, che sostiene Hezbollah anche tramite la concessione di armi (forse le stesse armi visibili nei video girati in strada durante gli scontri).
In questa situazione, il nuovo governo guidato dal magnate libanese Najib Mikati – insediatosi solo lo scorso 10 settembre dopo più di un anno di stallo seguito alla caduta del precedente esecutivo – sembra privo di incisività, quasi neanche menzionato nelle cronache e nei commenti sugli scontri di giovedì. Tenendo conto che Mikati stesso è comparso tra i nomi dei personaggi coinvolti nell’inchiesta sulle proprietà offshore Pandora Papers, anche la speranza che il governo possa contrastare la corruzione dilagante in Libano sembra allontanarsi ulteriormente.
La crisi economica, politica e sociale che ribolle a Beirut rischia di sfociare in qualcosa di più di una guerra civile: una guerra interna libanese potrebbe infatti veder direttamente coinvolta, al fianco di Hezbollah, una potenza come l’Iran. A quel punto, il vicino Israele si sentirebbe minacciato e non si farebbe certo pregare per intervenire contro gli sciiti, e forse neanche gli Stati Uniti potrebbero fare a meno di sentirsi coinvolti nella faccenda. Alla luce di uno scenario così delineato, il fatto che Iran e Usa siano ancora lontani da un accordo sul programma nucleare di Teheran (JCPOA) non lascia presagire niente di buono. Gli scontri di Beirut, insomma, potrebbero non rappresentare “soltanto” il triste preludio dell’ennesima sanguinosa guerra settaria, ma anche di un conflitto su più larga scala.
Giovanni Esperti