«Un confine è una linea che è stata tracciata su una terra che altrimenti sarebbe tonda. I confini sono un accordo di divisione e di proprietà. Vorrei portarvi su un confine su cui ho lavorato: quello tra Polonia e Ucraina all’inizio dello scoppio dell’invasione della Russia» inizia così il talk di Martina Micciché, attivista, scrittrice e fotoreporter, al workshop “Sanguinare: la guerra delle mestruazioni” al Festival del ciclo mestruale tenutosi il 17, 18 e 19 giugno scorso. Insieme a Saverio Nichetti, videomaker, fotografo e fotoreporter sono stati sul confine dell’Ucraina allo scoppio della guerra per un reportage, pubblicato poi sulla rivista “L’Integrale cinque – straniero”, e insieme portano avanti su Instagram un progetto chiamato Always Ithaka che ha l’obiettivo di raccontare il mondo in cui viviamo per provare a cambiarlo attraverso un approccio intersezionale e antispecista.
«Vorrei che vi lasciate fluire in quel contesto e provaste a immaginare l’incredibile quantità di persone che arrivava ogni giorno. Vorrei provaste ad immaginare la curva delle loro spalle che si distende appena perché il peggio è passato ma il brutto deve ancora venire, perché migrare è un processo continuo, è un processo costante, non termina nel momento in cui si raggiunge la frontiera perché non si sa cosa c’è dall’altra parte, come sarà strutturata l’accoglienza.»
Perché Always Ithaka ha deciso di lavorare a questo reportage dal confine ucraino?
M. M. «Abbiamo pensato di vedere se potevamo oggettivamente fare un lavoro utile di racconto, perché noi cerchiamo di fare un tipo di narrazione che sia centrato su quello che succede ma che possa dare anche gli strumenti per comprenderlo. Io ho una formazione come scienziato politico e sono specializzata in relazioni internazionali. Siamo due fotografi e abbiamo detto “cerchiamo di fare il nostro”».
Qualcuno vi ha raccontato la loro storia, cosa avevano fatto per arrivare al confine tra Ucraina e Polonia, quali sono state le storie più particolari?
M. M. «Un po’ si, in particolare nei primi giorni dove arrivano le persone che possono effettivamente permettersi di mollare tutto e scappare, sono anche quelli che sono più consapevoli che possono fuggire e sono più propensi a conversare. Erano spesso loro ad approcciarci perché sentivano che parlavamo italiano. Avevano veramente voglia di parlare di altro, poi erano di fretta, magari capitava che qualcuno ci raccontasse della sua fuga. Ricordo una signora che aveva due yorkshire sotto le braccia e per farci capire che erano stati bravi durante il viaggio di trenta ore ci aveva detto “sono stati buoni come la pizza”.»
S. N. «Io ero con Google Traduttore e quando l’ho letto ho detto “ah si, ho capito!”»
Avete avuto la possibilità di parlare con le persone che arrivavano lì, c’erano persone che avevano il mestruo che vi hanno raccontato il loro disagio?
M. M. «In verità no. Abbiamo visto le persone che prendevano i pacchi di assorbenti che cercavano di nascondere. C’è comunque dell’imbarazzo: sei con delle persone che hanno fatto la coda con te per 27 ore, c’è la tua famiglia, in particolare per i giovani, che sapevano che dovevano prenderli perché ne avevano bisogno, magari andava la madre in alcuni casi. Ma parlare di questa cosa non era proprio fattibile.»
Come funziona il confine?
S. N. «Loro appena arrivavano facevano una coda lunga dove c’erano delle navette che li portavano dal confine dell’Ucraina al centro commerciale che era a dieci/quindici minuti di macchina. Da lì c’era lo smistamento in tutta Europa: partivano gli autobus, c’erano tanti privati con i cartelli in mano con scritto la destinazione e il numero di persone che potevano portare per esempio “Milano 3 posti”. A volte c’erano contrattazioni del tipo quanti siete, cosa fate e si accodavano a questi privati, è una cosa bella ma può essere un po’ problematico perché non sai con chi vai e molta gente non si fidava.»
M. M. «Quello è un confine maggiormente composto da donne che si trovano in una situazione totalmente precaria: stai gestendo l’intero nucleo familiare, poi magari devi tornare dentro a recuperare i figli di qualcun altro e c’è un tipo di interesse diverso quando un confine del genere si connatura in questo modo molto legato al genere perché arrivano i trafficanti. Uno dei rischi maggiori che correvano era quello di finire nella tratta degli esseri umani per il mercato del sesso. Noi abbiamo notato che alcuni volontari dicevano loro di andare al centro di smistamento a registrarsi, dicevano che nel bene o nel male delle persone che c’erano per accompagnarle oltre il confine avevano preso la targa, quindi non è che uno passava all’improvviso e ti raccoglieva.»
S. N. «Una cosa che ci ha impressionato sono state alcune macchine che arrivavano e avevano la scritta “bambini” in ucraino, scritta a mano sulla polvere della macchina o con lo scotch, questo per non farsi sparare addosso dai soldati russi. Noi avevamo sentito questa cosa però non l’avevamo ancora vista.»
M. M. «Noi continuavamo a vedere queste macchine e a chiederci il perché, poi ci siamo resi conto che eravamo circondati da queste macchine con la scritta “bambini” proprio per sfuggire dagli attacchi.»
Durante il talk scorrevano le foto che gli attivisti di Always Ithaka hanno scattato sul confine dell’Ucraina, testimonianza di cosa porta la guerra ma dando anche una visione più ampia: sono arrivate 100mila persone, che dopo 30 ore di viaggio devono fare altre 20 ore di fila per attraversare il confine dove bisogna recuperare ogni centimetro per velocizzare la fuga, costipati in spazzi microscopici con solo 10 bagni chimici sporchi e non accessibili a tutti. La guerra non è solo distruzione di case e vite, non è solo una questione economica e strategica che riguarda nazioni e paesi. Con le parole di Always Ithaka: «le guerre portano con se altre guerre, molte combattute sul corpo delle persone razzializzate, che professano un’altra religione, le donne che mestruano».
Gaia Russo