Di fronte all’agire della Turchia ai danni dei curdi nella Siria settentrionale, le colpe dell’Europa non risiedono soltanto nella consueta mancanza di unità nelle posizioni politiche e diplomatiche, cioè di una reazione comune (e comunitaria) all’ingiustificabile atteggiamento di Ankara, ma radicano anche in un passato più lontano.
Negli ultimi tempi sembra ancora più evidente come l’ideologia ufficiale turca, autoritaria e militarista, persino nostalgica del passato imperiale ottomano, abbia perso ogni freno inibitorio, aiutata in ciò dall’alto livello di accettazione sociale ormai raggiunto. I casi dei saluti militari dei giocatori della nazionale turca di calcio, in segno di solidarietà nei confronti dell’esercito di invasione della Siria, l’hanno ulteriormente dimostrato. Proprio quest’ultima circostanza ha causato un forte sdegno presso l’opinione pubblica europea, che si è definitivamente resa conto della penetrazione sociale della deriva nazionalista e imperialista in Turchia.
Se, però, invece di censurare a posteriori l’atteggiamento aggressivo del governo di Erdoğan come fatto negli ultimi anni, nel contempo assistendo impotente alla crescita esponenziale del suo potere all’interno del sistema-Stato turco, l’Europa e la sua opinione pubblica avessero optato per includere la Turchia all’interno del sistema comunitario, molto di quanto, sul fronte turco, ha preoccupato l’Unione in questi anni (dalla radicalizzazione religiosa allo stesso protagonismo politico e istituzionale del presidente Erdoğan, fino alla gestione del problema dei migranti) sarebbe forse potuto essere evitato o almeno contemperato nella sua pericolosità.
Le colpe dell’Europa alle soglie del nuovo millennio
Erano i primi anni del nuovo millennio quando l’Europa si pose con decisione la questione dell’opportunità o meno dell’ingresso della Turchia nell’UE. Allora, un Paese dalla pulsante vita economica e in pieno progresso civile e politico (la Turchia aveva avuto già persino un premier donna, tra il 1993 e il 1996) bussò alle porte dell’Unione per intavolare un negoziato cui alcuni attori europei (tra cui l’Italia) già guardavano con benevolenza.
Tuttavia, nonostante anni di trattative, dell’ingresso della Turchia nella UE non se ne sarebbe fatto più nulla. I negoziati si arenarono sul terreno di problematiche insormontabili, che la Turchia dimostrava di fare fatica a superare: alcune erano senz’altro gravi e giustificate, come quella sul punto della piena implementazione dei diritti umani, dell’abolizione della pena di morte, del riconoscimento del genocidio armeno. Altre, a rileggere oggi le testimonianze di allora, appaiono ridicole e pretestuose: la distanza geopolitica della Turchia dall’Europa (avendo quel Paese il 95% del territorio in Asia), la lontananza culturale e quella religiosa, essendo la Turchia a schiacciante maggioranza musulmana.
In un tempo in cui si litigava, nell’Unione, su questioni irrisorie per il Terzo millennio, come la necessità di inscrivere all’interno della mai nata Costituzione Europea (altra occasione persa) il caposaldo, appunto, delle radici cristiane dell’Europa, personaggi come Giscard d’Estaing si misero di traverso sulla strada dell’integrazione turca, accampando motivazioni storiche e, appunto, confessionali, per giustificare l’incompatibilità della Turchia con l’Europa. D’altra parte, tali ragioni nascondevano anche altri retropensieri, come l’ostilità nei confronti dell’ingresso di un Paese così popoloso nell’Unione, che avrebbe significato conferirgli da subito un peso specifico elevato all’interno delle istituzioni comunitarie.
L’ascesa di Erdoğan in Turchia
L’ascesa di Erdoğan rimonta proprio a quegli anni. Primo Ministro nel 2003, in sedici anni l’attuale Presidente della Repubblica è stato capace di indirizzare la Turchia verso una maggiore radicalizzazione islamica, una marginalizzazione crescente del ruolo e dei diritti delle donne, una limitazione sostanziale del ruolo dell’esercito, custode costituzionale della laicità dello Stato, un’intensificazione del clima poliziesco e intimidatorio nei confronti dei giornalisti e, più in generale, nei confronti dell’opposizione politica e dell’associazionismo laico, fino ad arrivare alla totale identificazione della propria figura con lo Stato stesso, in particolare dopo il mai chiarito golpe del luglio 2016, facendo approvare la conversione costituzionale della Turchia da repubblica parlamentare a presidenziale.
Le colpe dell’Europa, dunque, consistono proprio nell’aver deliberatamente determinato un vero e proprio “respingimento” della Turchia dalle porte continentali, favorendone un ulteriore isolamento regionale cui il Paese ha risposto chiudendosi a riccio sulle proprie, appunto, radici religiose e culturali, e instradandosi su una via di conservatorismo e ideologia reazionaria che obiettivamente apparivano poco pronosticabili all’inizio degli anni Duemila.
Lo stesso ingresso di Cipro nell’UE ha funzionato come un’arma a doppio taglio in tal senso, a causa delle annose tensioni sul punto dell’occupazione della parte settentrionale dell’isola. Senza contare, poi, che geograficamente Cipro si trova in Asia esattamente quanto l’Anatolia.
La rinuncia dell’Unione a farsi carico di una presenza più radicata nella strategica regione mediorientale (a suo tempo si disse che non sarebbe stato il caso di allargare i confini dell’Europa fino a lambire Iraq, Iran e Siria), che sarebbe stata assicurata cavalcando l’onda di una Turchia europeista, ha implicato l’affidamento della gestione di un equilibrio regionale estremamente fragile alla sola autodeterminazione turca. Le ripercussioni di questo disinteresse, che si va ad associare alle altre colpe dell’Europa, sono ben visibili oggi.
Peraltro, è ben noto come le stesse colpe dell’Europa nell’escludere la Turchia dal processo di integrazione le si siano ritorte contro: Erdoğan non ha esitato a far pagare all’UE lo scotto della sua politica egemonica, all’atto di negoziare l’apertura e la chiusura dei flussi di migranti in fuga dalla guerra siriana e dall’ISIS. Lo scandalo del “pagamento“, da parte dell’Unione, corrisposto all’autoritario governo turco, pur di tenere lontani i migranti dalle frontiere europee, è stato il simbolo (tra i tanti altri) del fallimento nell’applicazione dei principi umanitari della stessa Unione alla più grave crisi migratoria della storia del dopoguerra.
La stessa gestione della questione curda sarebbe stata probabilmente più agevole con la Turchia in Europa. La politica comunitaria per la preservazione delle minoranze, unita alla vincolatività delle disposizioni dei Trattati circa il rispetto dei diritti umani e la preferenza del sistema europeo per le soluzioni di compromesso, avrebbe forse potuto indirizzare utilmente il processo di pace con le organizzazioni paramilitari curde (un paragone con la storia dell’ETA in Spagna forse non è del tutto inappropriato).
La libertà con cui Erdoğan ha condotto riforme costituzionali tendenti all’autoritarismo o con cui ha ritenuto di potersi servire impunemente della polizia all’interno dei confini nazionali e dell’esercito all’esterno non sarebbe stata forse possibile in una Turchia “europea”: può darsi che la stessa parabola ascendente del “sultano” sarebbe stata più difficoltosa, se non inesistente.
Pertanto, le maggiori colpe dell’Europa, già all’inizio degli anni Duemila e fino alla metà del decennio Duemiladieci, probabilmente sotto l’influsso di interessi politici transnazionali in conflitto, sono consistite nel fermarsi alle prime difficoltà del negoziato con la Turchia, riverberandosi, sul lungo periodo, sul deficit di crescita democratica del Paese (che invece diversi osservatori, anche accademici, davano in incremento costante in caso di adesione della Turchia all’Unione).
La Turchia ha finito per ripiegare su se stessa il proprio sentimento europeista, chiudendosi sul nazionalismo che strizza l’occhio all’islamismo, fomentando inoltre l’ambizione di dirigere da sola, persino in barba agli Stati Uniti, storico alleato nella NATO, la fine della crisi in Siria, col risultato soltanto di aprire un altro, tragico fronte, per l’esclusivo vantaggio proprio e del “sultano” che la governa.
Ludovico Maremonti