Azioni radicali e sacrifici collettivi sono presupposti imprescindibili per riuscire a superare una crisi. L’emergenza sanitaria che abbiamo recentemente vissuto ce l’ha duramente insegnato e se ci lascerà in eredità qualcosa di diverso dallo stress da pandemia, sarà proprio questa consapevolezza. Sorge allora spontaneo domandarsi perché per fronteggiare un’emergenza altrettanto deleteria come la crisi climatica si continui invece a non fare abbastanza.
Eppure già nel 1972, in occasione della pubblicazione del Rapporto Meadows (“The Limits to Growth”), era evidente che fosse in atto una perturbazione degli equilibri climatici a livello globale. Per di più il fatto che questo fenomeno fosse, e continua ad essere, provocato dalle scellerate attività dell’essere umano è ormai riconosciuto dalla comunità scientifica nel suo insieme. Tuttavia, nonostante gli incisivi e numerosi segnali che sottolineano la necessità di prendere decisioni immediate ed efficaci per contrastare la crisi climatica, la reazione dell’opinione pubblica e le risposte della politica sono lente a venire e pressoché inadeguate.
Mettendo a confronto la percezione della crisi climatica con quella sanitaria, la prima grande differenza che emerge è rappresentata dal fattore distanza. Distanza temporale in primis, ma anche distanza geografica e sociale. Mentre la pandemia è, per ovvie ragioni, riconosciuta da tutti come un pericolo incombente e da molti come un pericolo incontrovertibile, lo stesso non può dirsi per la crisi climatica.
La crisi climatica è, infatti, un fenomeno molto esteso sia nel tempo che nello spazio e, in quanto tale, difficile da comprendere e sperimentare. Il filosofo T. Morton parla, a riguardo, di iperoggetti: una categoria concettuale del tutto nuova che, comprendendo fenomeni grandi ed estesi, manda in frantumi la nostra tradizionale concezione di cosa significhi abitare la Terra. Per conoscere la realtà degli iperoggetti è necessario, spiega Morton, tanto l’ausilio della scienza quanto quello della tecnologia.
Il contributo che, entrambe, stanno fornendo nella lotta contro il coronavirus è evidente. Vaccini e applicazioni per prevenire e tracciare la diffusione del contagio sono stati brevettati proprio grazie all’apporto della comunità scientifica. E altrettanto evidente è il contributo che questa ha offerto, nel corso degli anni, alla causa ambientale. Eppure, ciò nonostante, nel contrastare la crisi climatica qualcosa sembrerebbe non aver funzionato nel modo giusto.
I tentativi realizzati dal mondo scientifico per diffondere maggiore consapevolezza circa la vera entità della crisi climatica sono stati finora quasi completamente infruttuosi. A nulla, o quasi, servono i consigli che l’IPCC fornisce agli autori dei propri report per aiutarli ad essere più efficaci nel sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della crisi climatica. Non basta, dunque, mostrarsi sicuri nel comunicare né trattare solo di quelle argomentazioni coperte da un forte consenso scientifico. E nemmeno l’impiego di criteri oggettivi nella scelta di immagini e grafici da utilizzare è sufficiente. Questi ultimi, infatti, per quanto attendibili possano essere, rischiano di risultare astratti e poco comprensibili, con la conseguenza di allontanare il pubblico da quello che è l’aspetto umano della scienza.
Nel necessario processo di “umanizzazione della scienza”, come l’IPCC lo definisce, è fondamentale agire su un duplice livello. Da un lato, è indispensabile fornire informazioni il più possibile corrette, aggiornate e affidabili, e comunicarle con chiarezza; dall’altro, è altrettanto doveroso convincere e coinvolgere il pubblico affinché prenda coscienza che la crisi climatica costituisce un fenomeno assolutamente attuale e, soprattutto, concreto.
Da un punto di vista comunicativo, dunque, la crisi climatica non può essere restituita esclusivamente come una questione scientifica. Se così fosse, infatti, si finirebbe per dimenticare che essa si ripercuote anche sull’economia. Già nel 2018 i danni economici legati all’azione umana sul clima sono stati valutati in 165 miliardi di dollari. Nel rapporto annuale del Wef, rilasciato durante il tradizionale incontro di Davos, si legge che duecento tra le più grandi aziende mondiali hanno calcolato che il cambiamento del clima potrebbe far perdere loro un totale di mille miliardi di dollari. Altri rischi economici possono poi prodursi sul mercato dei mutui, se interi quartieri diventano inabitabili a causa dell’innalzamento del livello del mare.
Questo fenomeno, a cui si aggiungono i sempre più frequenti eventi meteorologici estremi, ha inoltre favorito nuovi flussi migratori interni. La crisi climatica, dunque, non manca di produrre i suoi effetti anche a livello sociale, determinando la creazione di una nuova categoria di rifugiati – quelli climatici, appunto. Una categoria di così recente formazione da non vedere ancora assicurata un’adeguata tutela giuridica al crescente numero di persone che rientrano a farne parte.
Non da ultimo, andrebbe ricordato che le stesse pandemie possono considerarsi conseguenza delle attività umane su clima e ambiente. Diventa allora essenziale, nell’attività comunicativa realizzata dalla comunità scientifica, utilizzare un approccio multisettoriale che sia in grado di cogliere e far comprendere la connessione esistente tra la crisi del clima e tutto ciò che ci circonda. Allo stesso tempo, un simile approccio dovrebbe anche riuscire a fare leva sulla dimensione emotiva degli ascoltatori. Solo in questo modo ci si riuscirà a convincere che, per scongiurare un fenomeno complesso e delicato come quello di cui si sta scrivendo, non sia sufficiente fare affidamento sul solo contributo delle istituzioni politiche, ma sia necessario l’impegno individuale di ogni singolo cittadino.
Virgilia De Cicco