Ne avrete sentito parlare: lo Xinjiang è una regione autonoma situata nel nord-ovest della Cina. È una delle aree meno popolate del paese asiatico, ma riveste un ruolo fondamentale dal punto di vista dell’approvvigionamento di risorse energetiche e di metalli preziosi, ma altrettanto da un punto di vista strategico-militare, per la protezione dell’heartland cinese. Storicamente parte degli imperi cinesi ma indipendente dal 1940 fino al 1949, alla fine della guerra civile è tornato sotto il controllo del “paese del centro”. Da allora è stata costante l’immigrazione di cinesi Han nella regione, incoraggiata dalle autorità per allineare la regione ai parametri etnici nazionali e stabilizzarla sotto il controllo della Repubblica Popolare. Ciò ha inevitabilmente finito per provocare tensioni e scontri anche violenti con la popolazione locale degli Uiguri, un’etnia turcofona di religione islamica, maggioritaria nello Xinjiang. La Cina ha portato avanti l’idea secondo la quale gli attacchi terroristici di matrice islamica che avvenivano nella regione autonoma, così come in altre parti della Cina, fossero proprio di matrice uigura. Per questo motivo, nello Xinjiang i controlli delle autorità centrali sono molto più stringenti rispetto al resto del paese, fino a rasentare un vero e proprio stato di polizia. Forze dell’ordine, checkpoint militari e dispositivi di videosorveglianza sono ovunque, e in molte località sono sorti i cosiddetti “campi di rieducazione”.
Il 22 aprile 2018 il satellite di Google Maps fotografò, nella località di Debancheng, una struttura massiccia e articolata, lunga 2 km con 16 torri di guardia, mai avivistata in quel territorio. Nell’ottobre dello stesso anno il complesso crebbe ulteriormente. Questa struttura viene definita dalle autorità centrali come scuola di “rieducazione”, il cui scopo è quello di liberare gli Uiguri e le minoranze musulmane dalla propensione all’estremismo dovuti al loro background religioso. Per “liberarsi”, devono imparare la lingua cinese, memorizzare e osservare le leggi restrittive della Cina sulle religioni e rimpiazzare la loro fede e identità culturale con una nuova identità, naturalmente preparata e approvata dal partito. I detenuti sono sottoposti anche a “corsi di ospitalità” dove apprendono l’etichetta e le mansioni domestiche. La permanenza può durare da un minimo di due mesi ad un massimo di quattro mesi.
Secondo Xu Guixiang, membro del dipartimento di propaganda dello Xinjiang, gli Uiguri e le minoranze musulmane vengono visti come persone portate a commettere un delitto, quindi il loro compito è «prende una persona che si trova sul punto di commettere un crimine, un criminale minore, e restituirlo alla comunità come un cittadino obbediente alla legge». A seguito della fuga di notizie circa i cosiddetti campi di rieducazione, che raccontavano di una situazione drammatica ai limiti della pulizia etnica, il governo cinese ha deciso di permettere ad alcuni giornalisti di fare un tour della struttura. In un servizio della BBC News un detenuto afferma di aver deciso di entrare nella struttura di propria volontà per «la scarsa conoscenza delle leggi (cinesi) e per sfuggire a estremismo e terrorismo». Le immagini mostrano uomini e donne felici mentre dipingono, ballano e cantano, in un’atmosfera amena. Divisi in gruppi, una sera a settimana possono lasciare la scuola di rieducazione. Ma ciò che il governo mostra è molto diverso dalla realtà.
Il 29enne Ablet Tursun Tohti, racconta di essere stato rinchiuso nel campo di rieducazione di Hotan, nel sud dello Xinjiang, per un intero mese nel 2015. Veniva svegliato ogni giorno un’ora prima dell’alba e costretto a correre: «chi non correva abbastanza veloce veniva punito in una stanza speciale dove c’erano due uomini a colpire con una cintura e calci» Erano costretti a cantare una canzone intitolata “Without the Comunist Party There Can Be No New China” (“senza un Partito Comunista non ci può essere una nuova Cina”), imparavano la legge e chi non sapeva recitarla a memoria veniva picchiato. Ablet è riuscito a lasciare la Cina, rifugiandosi in Turchia, ma è stato costretto a lasciare nel campo il padre e otto fratelli.
Zumbrat Dawud, è stata rinchiusa per due mesi nel 2018. Ha raccontato che durante un brutale pestaggio la guardia la incitò a invocare il suo Dio: «se Lui è grande verrà a salvarti ora, davanti a me». Ogni due settimane le donne erano sottoposte a delle iniezioni ed ogni giorno dovevano prendere delle pillole. Dopo due mesi Zumbrat Dawud venne rilasciata, ma poiché aveva superato il limite di due figli, per la legge cinese, fu costretta a pagare una penale. Successivamente le fu suggerito che le accuse rivolte contro di lei sarebbero cadute se si fosse sottoposta ad un intervento di sterilizzazione: «Il giorno dopo ci dissero di arrivare all’ufficio delle pianificazioni delle famiglie a stomaco vuoto. Non avevo scelta, mi sentivo senza speranza. Arrivata in clinica mi hanno dato un’anestetico, mi sono guardata intorno e ho visto donne piangere dal dolore. Dopo mezz’ora iniziai a sentire un dolore straziante». Riuscirà a fuggire con la famiglia dallo Xinjiang e trovare rifugio in America dove racconterà la sua storia. Poco tempo dopo il padre morirà, ucciso probabilmente a causa della testimonianza di Zumbrat.
Le donne in Xinjiang sono costrette dunque ad assumere contraccettivi in grandi quantità o sottoporsi alla sterilizzazione. Un documento segreto conferma che «le donne che superano il limite di nascite devono adottare misure anticoncezionali con effetto a lungo termine ed essere soggette ad educazione e formazione di abilità professionali» frase spesso usata per riferirsi al campo di rieducazione. Si contano almeno tre strutture con funzioni di rieducazione e detenzione che stipano in totale più di 20.000 prigionieri, sebbene il governo cinese, lo scorso 30 agosto, abbia dichiarato che le strutture siano state chiuse e le persone abbiano terminato il loro percorso e trovato lavoro.
Molti dei detenuti vengono inviati nelle fabbriche dove lavorano per 13 ore: sono costretti a viverci e raramente ottengono il permesso di tornare presso le proprie case. Alcuni marchi ben noti come Nike, Adidas, Amazon e Apple sono stati accusati di trarre benefici dall’uso di lavoratori uiguri in stato di prigionia. Nike ha annunciato di star indagando, asserendo di non non servirsi prodotti finiti o materiali provenienti dalla regione dello Xinjiang, mentre Apple ha rassicurato i consumatori circa l’assenza nelle proprie catene produttive del lavoro forzato. In buona o in cattiva fede che siano le multinazionali, le testimonianze paiono smentirle categoricamente.
Questi campi dell’orrore somigliano a quelli di Auschwitz e Birkenau, eretti quando un certo Adolf Hitler manteneva sotto il gioco nazista l’Europa centro-orientale. Anche allora persone innocenti venivano etichettate come diverse e pericolose in base all’etnia o alla fede: non facevano parte della razza ariana, erano ebrei. Oggi, sotto i nostri occhi, sta avvenendo lo stesso. Le nazioni europee si sono mobilitate affinché la Cina chiuda i campi di rieducazione, ma meno se ne parlerà e più la Cina sarà libera di violare apertamente i diritti umani.
Gaia Russo