Luiz Inácio Lula da Silva, più brevemente Lula, è il nuovo Presidente del Brasile. Le elezioni del 30 ottobre hanno infatti visto trionfare il leader del Partito del Lavoratori (PT) in quella che è stata la “battaglia” elettorale più combattuta di sempre. Mai nella storia brasiliana il vincitore delle elezioni si era imposto con uno scarto di “soli” due milioni di voti: 50,9% contro il 49,1% ottenuto invece dal rivale Jair Bolsonaro. La rimonta di quest’ultimo rispetto al primo turno dove aveva raccolto “appena” il 43,20% rispetto al 48,43% di Lula, rappresenta l’immagine di un paese profondamente spaccato in due dal punto di vista sociale. Tuttavia, bisogna altresì sottolineare che mai nella storia delle elezioni brasiliane il presidente uscente candidato alla rielezione era stato sconfitto alle urne, a dimostrazione dell’enorme potere che l’apparato statale ha nell’influenzare i risultati delle elezioni. In tale contesto il bolsonarismo ha però rafforzato la sua identità politica risultando essere il primo partito al primo turno e conquistando, in coalizione con le altre forze di destra, la maggioranza alla Camera. Bolsonaro ha fatto proseliti dimostrando di avere un ampio ed eterogeneo consenso da un punto di vista sociale che unisce «la borghesia latifondista e la classe media conservatrice con ampi settori di sottoproletariato tanto urbano come rurale adepto alle nuove chiese evangeliche e all’etica neoliberista della Teologia della Prosperità». Tale eterogeneità unita alla martellante campagna elettorale che ha visto l’appoggio di diversi campioni dello sport brasiliano come Neymar, Kaka, Cafù, Ronaldinho, Felipe Melo hanno sicuramente influito sul risultato positivo in termini elettorali dell’ex militare brasiliano. «In particolare forti polemiche ha scatenato il video di TikTok di Neymar, proprio alla vigilia della prima tornata elettorale a inizio ottobre, soprattutto perché il giocatore del PSG proviene da un background fatto di povertà estrema e privazioni, e il presidente uscente non sembra proprio un paladino delle classi popolari. Anche Romario, storico campione del mondo del 1994, è un bolsonarista della prima ora ed è stato rieletto al primo turno, di nuovo senatore» scrive Contropiano. Tuttavia, l’altra faccia dello sport, quella del mondo ultras, si è invece schierata in massa per Luiz Inácio Lula da Silva scendendo per le strade nei giorni successivi al voto per reprimere sul nascere ogni possibile tentativo di colpo di Stato.
Se la differenza elettorale tra i due candidati è stata minima, la differenza politica è invece enorme. Le prime parole di Lula sono infatti andate in direzione diametralmente opposta rispetto all’ormai ex governo di Bolsonaro: «Hanno cercato di seppellirmi vivo, ma sono risorto. Sono qui per governare il paese in un momento difficile, ma riusciremo a trovare risposte. Il nostro impegno più urgente è porre fine alla fame». Il Brasile è inoltre «pronto a riprendere il suo posto nel combattere la crisi climatica, specie in Amazzonia. Il pianeta ha bisogno di una Amazzonia viva». Contrasto alle diseguaglianze sociali, lotta ai cambiamenti climatici e soggettività politica del Brasile e del Sudamerica in un nuovo ordine multipolare – sempre meno a trazione USA – sono il comune denominatore di un regione che può puntare a diventare un futuro protagonista del nuovo mondo. La vittoria di Lula infatti conferma un processo, in atto in tutta l’America Latina, di spostamento generale dell’asse a sinistra iniziato nel 2018 con l’elezione in Messico di Manuel López Obrador, continuato poi prima in Argentina nel 2019 con l’elezione del peronista Alberto Fernández, e poi nel 2022 con l’elezione di Gabriel Boric in Cile e Gustavo Petro in Colombia (il primo presidente di sinistra della storia del paese). Con il Brasile di Lula, le cinque economie più grandi del Sudamerica sono dunque guidate da coalizioni progressiste e di sinistra. A questi poi sono da aggiungersi il Venezuela di Maduro, la Bolivia di Luis Arce, il Perù di Pedro Castillo e l’Honduras di Xiaomara Castro. Senza ovviamente entrare nel dettagli di ogni singola esperienza politica tra queste citate, è evidente che un Sudamerica compatto con una forte unione d’intenti può diventare un attore politico estremamente rilevante nell’immediato futuro sul palcoscenico delle relazioni internazionali. L’Unione Europa guarda con grande interesse al Sudamerica e chissà che, visto il recente conflitto in Ucraina e la necessità – tutta politica – di rendersi meno dipendente da Russia e Cina, non possa riprendere i negoziati per l’accordo di associazione con il MERCOSUR (l’area di libero scambio dell’America meridionale) – intenzione espressa più volte da Lula in campagna elettorale.
La vittoria di Lula sottintende l’intenzione di riprendere i lavori per un nuovo ordine globale diametralmente opposto all’idea di mondo della stragrande maggioranza della sinistra europea ed italiana che hanno accolto ipocritamente con favore la sua vittoria. Il segretario del PD Enrico Letta si è ad esempio espresso con entusiasmo circa la vittoria dell’ex sindacalista parlando di “una vittoria della democrazia”. Tuttavia, non basta sconfiggere le destre per entrare a far parte della stessa famiglia politica. Con buona pace di Letta e di tutte quelle sinistre (e destre liberali) che sostengono in maniera paradossale il multilateralismo in un mondo a trazione USA, il Brasile di Lula punta a costruire invece solide basi per un mondo multipolare rilanciando di fatto la convergenza dei c.d. paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudamerica) di cui lo stesso Lula fu uno dei principali fautori, i quali rappresentano i principali rivali economici e politici, e dell’Europa, e degli USA.
Nicolò Di Luccio