«Cos’è un uomo? Cos’è una donna?» – È quanto si domanda in apertura la filosofa Judith Butler nel suo saggio Questione di genere, a proposito del binarismo di genere. Il genere è una verità biologicamente data, o è frutto dell’interazione di fattori ambientali, storici e culturali? È davvero possibile tracciare una linea netta di demarcazione fra ciò che è naturale e ciò che è culturale? Il genere è qualcosa di fisso o di mutevole? Come viene costruito il genere, posto che lo sia, e cosa ne deriva?
Secondo la sociologa Sally Hines gli studi sulla socializzazione al genere evidenziano «che il comportamento di genere è appreso» e che i ruoli di genere non permangono invariati. Norme e aspettative di genere sono specifiche di una particolare società, seppur viene presentata quale universale la dicotomia Uomo-Donna. Il genere si presenta, dunque, quale realtà socialmente costruita, non biologicamente data. Si è uomini e donne, nel momento in cui si viene riconosciutə dalla società in quanto tali, e ne consegue l’assegnazione di ruoli da parte del gruppo lungo la linea di demarcazione di genere. Nessun soggetto può essere estrinsecato dal suo contesto. Sarà l’interazione di fattori ambientali, biologici, culturali e politici a costruire l’identità di genere. Come sostiene Hines: «l’ideologia sostiene la naturalità del sistema: lo assolutizza in maniera astorica, celandone la sostanziale transitorietà».
Hines evidenzia inoltre che i sistemi di genere nei paesi del Nord globale hanno in gran parte seguito il modello binario, ma nel resto del mondo non è sempre stato così. Esempi riportati dall’autrice sono: l’India le cui divinità valicano il binarismo di genere; l’Asia meridionale e la comunità Hijra, costituita da persone a cui è stato assegnato il sesso maschile alla nascita, ma che si identificano come donne; le comunità di nativi americani i cui membri, definiti two spirit, godevano di stima all’interno del gruppo, perché recanti in sé uno spirito femminile e uno maschile.
Secondo la biologa Anne Fausto-Sterling: «il binarismo di genere è una scelta politica, non una verità scientifica». La natura, stando agli studi odierni, presenta un ventaglio di possibilità ben più ampio della dicotomica divisione binaria dei generi. «I nostri corpi sono troppo complessi per fornire risposte chiare sulle differenze sessuali, quelle che sono considerate vere e proprie funzioni stabili dei corpi femminili e maschili sono legate alla nostra idea di genere» e alla differenziazione di ruoli di genere costruiti in seno alle società etero-patriarcali Occidentali. Il binarismo di genere cancella le persone intersex, le quali presentano variazioni alla “norma” inerenti gli ormoni, i cromosomi, l’apparato riproduttivo interno, i genitali esterni o le caratteristiche sessuali secondarie. Neppure il sesso si presta alla riduttiva configurazione degli opposti che sarebbe radicata nella natura: le persone intersex costituiscono circa il 2% della popolazione.
Nella seconda metà del ventesimo secolo si riteneva che le persone intersex presentassero delle “anomalie”, che in quanto tali dovevano essere corrette, con procedure mediche raramente consensuali. La scienza, dunque, non è meramente descrittiva, ma si colloca anch’essa nell’alveolo delle decisioni politiche- prese da chi detiene il potere- in quanto funzionali al mantenimento (o alla costruzione) di un dato ordine sociale. Il binarismo di genere viene introiettato e consacrato, giustificato adducendo quale sua ragion d’essere una sorta di determinismo biologico, che diviene poi ideologia e viene sfruttato dall’etero-patriarcato quale strumento di organizzazione sociale (la divisione di genere dei ruoli ne è un esempio).
Il professore di neurobiologia Cahill nel 2006 ha affermato che la componente sessuale sarebbe solo una delle variabili che delineano quelle che sono le funzioni cerebrali. Il cervello «non opererebbe secondo circuiti neurali già definiti alla nascita, ma selezionerebbe le sue connessioni in base all’ambiente circostante». In un esperimento del 2013, un gruppo di partecipanti è stati sottoposto a dei test matematici, preannunciando loro che tale prova aveva evidenziato in passato differenze nei risultati fra i sessi. A un altro gruppo è stato invece comunicato che non sussistevano tali differenze. Questa manipolazione del contesto dimostrò come le differenze nelle prestazioni possano dipendere dall’ambiente nel quale il soggetto è inserito. I corpi sono sistemi dinamici, soggetti a mutamento, e le esperienze- che modificano le connessioni neurali- possono essere omogenee per gruppi dissimili. Si è ipotizzato, inoltre, che le interpretazioni dei dati raccolti possano essere distorte a favore degli stereotipi di genere. David Page nel 1987 affermò di aver scoperto dall’analisi del cromosoma Y il gene “master”, che determinerebbe le caratteristiche di genere di una persona. Le sue ricerche, però, non si dimostrarono valide in quanto furono i presupposti culturali sulla relazione binaria fra i generi a impostare e orientare la sua ricerca sulla determinazione dei generi.
Fu l’antropologia strutturale di Lévi-Strauss a porre in essere la distinzione fra natura e cultura, in cui la seconda trasforma il materiale grezzo (che è la prima) in un Altro di cui appropriarsi, un «quadro universalizzante [che] non tiene conto delle molteplici configurazioni della natura». Butler supera il dualismo natura/cultura affermando che sia il genere sia il sesso sono dimensioni costruite: «Il genere non andrebbe concepito come mera iscrizione culturale di significato su un sesso già dato». Seppur esiste il sesso quale realtà fenomenica, nel momento in cui viene nominato, il sesso viene interpretato, reso culturale dal linguaggio che utilizziamo. Il genere non è un dato naturale inscritto nel corpo, bensì una proiezione del culturale sul naturale e una successiva naturalizzazione del culturale, che appare quindi naturale.
La natura è stata talvolta usata in chiave ideologica, ad esempio per giustificare la subalternità delle donne. Altri studi parlano della costruzione del binarismo di genere quale strumento di colonizzazione. La scienza suprematista dell’inizio del ventesimo secolo riteneva che «solo i bianchi si erano evoluti in modo da mostrare una chiara distinzione tra i sessi», motivo per il quale le persone intersex bianche risultarono in seguito essere un problema per tale narrazione. Le moderne categorie di genere e sesso non sono naturali, ma «un costrutto sociale e culturale specifico dell’Occidente borghese bianco». Il binarismo di genere non è un sistema universale, ma uno specifico modo di organizzare le persone e le società, collocabile storicamente e geograficamente. Ad esempio, sembra che nella cultura Yorùbá la categoria “donna” non sia esistita fino all’assimilazione forzata delle norme di genere, utilizzata come tattica di colonizzazione. Ancora una volta, appare evidente come il genere diventi principio organizzatore, in cui la natura viene prodotta in accordo con i dettami etero-patriarcali. Vi sono dunque motivazioni politiche e dinamiche di potere che hanno reso conveniente la marchiatura di genere.
Judith Butler, binarismo di genere e la sovversione dell’identità
Judith Butler definisce il genere performativo, in quanto basato su ciò che facciamo. Definizioni di mascolinità e femminilità non sono che costruite. La tesi che il genere sia performativo cerca di mostrare che «ciò che consideriamo come un’essenza interiore del genere stesso è qualcosa che viene fabbricato attraverso una serie costante di atti, postulati attraverso la stilizzazione di genere del corpo». È l’atto linguistico che porta alla costruzione dell’identità. Dire “è un maschio” fa sorgere nella realtà “il maschio” e da quel momento il soggetto inizierà la sua performance di maschio. Ne conseguiranno determinati suoi comportamenti e sue scelte (parziali), mentre il genere assegnatogli verrà naturalizzato attraverso il linguaggio.
Butler analizza, inoltre, le performance sovversive, dicendo che rischiano sempre di «perdere la loro forza attraverso la loro ripetizione nella società dei consumi, dove la sovversione ha un valore di mercato». Nei fatti, vi sono “differenze” che possono essere messe a valore, possono essere commercializzate. Motivo per il quale le istanze identitarie, quando fini a sé stesse – perché non implicano anche una messa in discussione del sistema economico in cui si formano- rischiano di perdere qualsivoglia potere sovversivo e potenziale trasformativo del reale, se non addirittura di essere inglobate dal sistema e mercificate. Lo Stato può scegliere di proteggere alcune soggettività, di portare avanti le loro istanze, ma nel fare ciò le cristallizza. Foucault ha evidenziato che il potere giuridico produce «ciò che dice soltanto di rappresentare». I soggetti sono definiti in anticipo dalle regole che si dicono rappresentative e vengono riprodotti in accordo con le strutture dominanti. Questa protezione (che si rivela un palliativo subordinato a delle condizioni) rischia di eliminare qualsivoglia propulsione sovversiva delle soggettività oppresse, che rinunciano a uscire dalla cornice etero-patriarcale-capitalista, a immaginare nuovi modi di esistere fuori dalla norma, accontentandosi delle briciole.
Inoltre, la protezione giuridica corre il rischio di essere una negoziazione delle libertà sempre rivedibili (vedi Roe v. Wade), se non destinata a pochi eletti meritevoli di entrare nel paradiso della reificazione. La sopravvivenza delle persone queer sarà garantita con il solo vincolo di essere reificabile, di avere un valore di scambio. Si tratterà, dunque, di un’emancipazione parziale finché si permane nelle medesime strutture di potere che riproducono l’assoggettamento delle soggettività queer, che perpetuano la repressione del polimorfismo primario, anziché liberare il desiderio omoerotico e qualsiasi pulsionalità umana.
Celeste Ferrigno