Nelle ore successive al discorso in cui Joe Biden ha negato e respinto tutte le istanze che hanno guidato gli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo in Afghanistan, alcuni analisti hanno posto l’attenzione sulla possibile strategia che ha guidato il Presidente degli Stati Uniti ad accelerare il ritiro già cominciato l’anno precedente da Donald Trump – che a Doha firmò un accordo con i talebani per il ritiro dei soldati statunitensi da Kabul – e soprattutto sulle sue conseguenze. Nello specifico, ci si chiede se la formazione di uno stato teocratico a trazione islamica possa realmente scombinare i piani dei rivali strategici degli americani in Asia centrale, cioè Cina, Russia e Iran.
Nonostante nelle sue parole non figurino riferimenti strategici, da giorni lo stato maggiore dell’esercito americano e l’intelligence si interrogano sul futuro dell’influenza americana in Medioriente, una zona ricca di minerali e di idrocarburi e vitale per la gestione dei flussi commerciali tra l’Occidente e l’Oriente. Preoccupa la reazione di Pechino che, più di Russia e Iran, aspira a un ruolo da protagonista nell’area, soprattutto in relazione ai progetti di espansione geopolitica che mirano a estendere i tentacoli della “piovra cinese” fino in Europa. L’Afghanistan, in questo senso, è un Paese nevralgico per la riuscita del piano. Gli Stati Uniti, dal canto loro, oltre al fattore dell’instabilità religiosa contano anche su un futuro scontro tra la Cina, che sta penetrando sempre più in Asia centrale, e la Russia, che fino a poco tempo fa ne deteneva il controllo.
Il ritiro era comunque inevitabile. Gli Stati Uniti hanno perso l’Afghanistan già quindici anni fa, quando decisero di dedicarsi all’Iraq, lasciando il Paese in balia di un governo inefficiente e profondamente corrotto. La crescita economica e sociale promessa non si è avverata, creando così un clima di sfiducia generalizzato nei confronti della democrazia. Si è così preferito stipulare accordi paralleli con i talebani, il cui ritorno in queste condizioni non è mai stato messo in discussione. Ciò non toglie che l’uscita di scena andava gestita meglio, garantendo, ancora per qualche anno, una vera copertura aerea alle operazioni dell’esercito afgano e un nucleo di supporto di forze sul campo. Questo non è successo e a risentirne potrebbe essere la reputazione degli occidentali in un crocevia strategico per risorse e geopolitica.
Mors tua vita mea: così la Cina si prepara a prendersi l’Afghanistan
«L’improvviso crollo del governo afghano sostenuto dagli Stati Uniti è stato inevitabile ed è stata la prova del fallimento dell’egemonia americana. Sono state la Storia, la logica interna e internazionale e l’inevitabilità a pretendere questo finale, che dimostra come la strategia dell’intervento militare e della ricerca dell’egemonia territoriale all’estero siano decisioni impopolari e destinate sempre a fallire». Con queste parole il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha commentato il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan. Si tratta di un giudizio eloquente, il quale mira a sottolineare la sostanziale differenza tra un modello “bellicoso” come quello americano e uno “virtuoso”, cioè quello cinese (win-win).
La Cina aveva già preso contatti con i taliban lo scorso luglio, a Doha; un incontro che ha avuto il duplice obiettivo di soddisfare le richieste talebane di un “riconoscimento politico” e, da parte cinese, di ottenere rassicurazioni e garanzie circa la stabilità dei rapporti diplomatici tra i due Paesi. Quello avvenuto il mese scorso è soltanto l’ultimo di una lunga serie di confronti che vanno avanti dal 2015 con l’obiettivo di imbastire un rapporto di fiducia reciproca utile per costruire relazioni economiche.
Alla base dell’attivismo cinese c’è innanzitutto la ricerca di un’area di influenza da sottrarre agli Stati Uniti e il disimpegno in Afghanistan rappresenta un’occasione unica in questo senso. Il controllo dell’Afghanistan consentirebbe di rafforzare la posizione cinese nell’entroterra asiatico, indebolendo ulteriormente la posizione degli alleati degli Stati Uniti, capeggiati dall’India.
Assieme alla funzionalità geopolitica del territorio afghano, ci sono anche ragioni puramente materiali, parimenti importanti per un Paese assetato di crescita come la Cina e alla perenne ricerca di risorse per perseguire i propri scopi. Nel sottosuolo afghano vi sono tra i più ricchi giacimenti minerari al mondo, il cui valore supera di gran lunga il trilione di dollari. Non si tratta, comunque, di una notizia estranea a Washington, dato che le indagini cominciarono già negli anni ’80, durante l’occupazione sovietica.
Gli esperti statunitensi scovarono una serie di documenti contenenti informazioni sul sottosuolo afghano e ne confermarono il contenuto con una serie di rilevamenti successivi. Tra le scoperte più rilevanti spiccano l’ingente presenza di ferro, rame, cobalto, oro e altri minerali preziosi. Ai cinesi, però, interessa soprattutto il litio, elemento fondante delle moderne apparecchiature tecnologiche civili e militari e una delle 17 “Terre rare” al centro della guerra commerciale con gli Stati Uniti. Con i diritti di estrazione in Afghanistan, Pechino compirebbe un altro passo verso la vittoria.
Il dialogo con i talebani è funzionale alla diplomazia cinese anche per un motivo prettamente legato alla sicurezza interna. Tra i taliban si nascondo anche numerosi combattenti originari della regione cinese dello Xinjiang, popolata dalla minoranza musulmana degli uiguri che Pechino reprime e rinchiude in “campi di rieducazione”. La Cina vuole assicurarsi che l’Afghanistan non diventi una base logistica dal quale la minoranza possa operare per sabotare i suoi interessi.
Alla Cina, però, serve l’Afghanistan anche per dare seguito al grande progetto commerciale e geopolitico noto come “Nuova Via della Seta”. Affinché gli investimenti cinesi non diventino lettera morta, servirebbe confrontarsi con un Afghanistan sicuro, stabile e soprattutto filo-cinese. A questo proposito, si parla già di una grande autostrada che dovrebbe collegare Kabul alle città marittime del vicino Pakistan.
Nonostante le promesse di stabilità talebane, i cinesi sono abbastanza diffidenti sugli sviluppi futuri del regime teocratico in Afghanistan. Ecco perché la Cina, da almeno sei anni, sta cercando di presentarsi come semplice mediatrice tra gli interessi dei taliban e quelli del governo afgano filo-americano, mantenendosi sempre fedele al principio di non ingerenza negli affari interni, fiore all’occhiello della sua diplomazia. Se la Cina riuscirà a mantenere questo profilo senza uscire fuori dagli schemi tradizionali della propria politica estera, è una questione che soltanto il tempo riuscirà a chiarire.
Russia e Iran: un pragmatismo che può tornare utile
A dispetto della Cina, la Russia è al contempo disinteressata e sorpresa da quanto accaduto a Kabul. Di certo si aspettava che i tentativi per la presa del potere da parte dei talebani potesse durare di più e non solo dieci giorni, anche per avere più tempo per decidere la linea politica da assumere nei confronti dell’eventuale governo dell’Emirato. Prima del 2001, infatti, i russi sostenevano l’Alleanza del Nord del generale Massoud, il Leone del Panjshir, che combatteva contro i taliban. Dopo l’arrivo degli americani, però, Mosca ha preso contatti con le forze islamiste.
Rispetto alla posizione cinese, quella russa contiene molti più elementi di incertezza, uno su tutti la penetrazione di Pechino in Asia centrale. La Russia ha grosse difficoltà a contrastare l’avanzata cinese in una zona che in passato è stata sottoposta alle mire dell’ex Unione Sovietica, perché non ha le capacità economiche per farlo. A lungo andare, questo potrebbe essere un elemento di frizione sia con i talebani che con la stessa Pechino.
In particolare, sarà interessante seguire l’evoluzione di tale processo in Uzbekistan e in Tagikistan, dove sono presenti forze militari russe per contrastare il terrorismo jihadista (altro elemento che preoccupa Mosca). Infatti, le ultime operazioni congiunte si sono focalizzate sulla protezione dei confini e sulle attività antiterroristiche. Per Mosca la sicurezza delle proprie aree è tutto, basti pensare al finanziamento da 1,1 milioni di dollari per un avamposto militare nella provincia tagika di Khatlon, al confine con quella afghana di Kunduz.
L’Iran, invece, ha sempre avuto legami storici, etnici e religiosi con l’Afghanistan. Molti afgani, infatti, sono sciiti. Assieme a Mosca, l’Iran sostenne l’Alleanza del Nord contro i talebani e ne pagò direttamente le conseguenze, dato che nel 1998 nel massacro di Mazar-i Sharif, perirono 8 tra giornalisti e diplomatici di Teheran. Oggi la situazione è radicalmente mutata: la politica dell’Iran verso i talebani è molto ambigua, a metà tra il timore di una persecuzione sciita da parte dei sunniti e il logoramento della posizione degli Stati Uniti. Il ritiro delle forze dell’ISAF è comunque un fatto positivo per l’Iran, il quale non si troverebbe più a ridosso del confine 100mila soldati americani.
All’interno di un’area grande pressoché il doppio dell’Italia, si concentrano numerose forze che soltanto la mediazione potrà riuscire a conciliare. L’Afghanistan è un crocevia importantissimo e il suo possesso garantiva la permanenza di un presidio occidentale in un’area contesa con la Cina. Ora, Pechino potrebbe assumere il ruolo di mediatore tra le proprie posizioni e quelle di Iran e Russia, accrescendo la propria influenza e soprattutto imparando a dialogare con l’estremismo islamico, elemento sottovalutato dalla geopolitica occidentale.
Donatello D’Andrea