Il pensiero liberale, ovvero la nuova ragione del mondo, si pone sul piano dell’onnicomprensività e dell’inconfutabilità, e tra i suoi princìpi non prevede né la possibilità di nazionalizzare né alcuna punizione per i grandi evasori. Per l’appunto la tradizione liberale – fondata sulla base della concezione di uno Stato minimo, garante della proprietà privata naturalizzata e posta a fondamento del diritto umano (borghese) e della libertà dell’individuo (possidente) – considera la democrazia moderna un sistema essenzialmente totalitario. Del resto, filologicamente e storicamente democrazia significa proprio questo: potere, forza e, tendenzialmente, dominio degli abitanti dei quartieri popolari (i demos dell’antica Atene), in evidente contrapposizione a qualsiasi forma di oligarchia. Tanto che già Aristotele la considerava una «forma degenerata di governo», in quanto rappresenterebbe il dominio dei più poveri sui più ricchi. Da qui l’avversione dei classici del liberalismo e dei loro epigoni odierni, i neoliberisti, per il suffragio universale e per il modello costituzionale, in quanto questi ultimi rischierebbero di favorire la democrazia. Infatti lo Stato realmente liberale non può nazionalizzare e deve ridurre al massimo la tassazione dei più ricchi.
Così, eliminando l’elemento della progressività fiscale, la diminuzione delle tasse avvantaggia le classi dominanti, favorendo oltretutto il taglio del sedicente «Stato sociale», ovvero la riduzione del salario indiretto (forme varie di assistenza) e differito (forme varie di previdenza), per coprire poi con politiche di austerità la crescita vertiginosa del debito pubblico. Del resto un debito pubblico così elevato rende impossibile la sua riduzione, dal momento che lo Stato ha già molteplici difficoltà a pagare i crescenti interessi e, anzi, per farvi fronte tende a indebitarsi ulteriormente.
Dunque, il principio costituzionale di eguaglianza fra gli uomini innesca un conflitto enorme con la nuova ragione del mondo, avversa per propria natura al concetto stesso di giustizia sociale, poiché metterebbe a repentaglio le libertà dei possidenti e degli evasori attraverso la tassazione delle proprietà e dei profitti, e con ciò sarebbero in tal modo costretti a sostenere economicamente i diseredati che costantemente e impunemente sfruttano.
L’imperante darwinismo sociale demonizza qualsiasi possibilità politico–economica di nazionalizzare, tassare e garantire diritti sociali ed ecologici. La narrazione attuale divulga la malsana idea secondo cui i possidenti e gli evasori sarebbero i migliori e dunque i più meritevoli, mentre i subalterni sarebbero i primi responsabili della loro condizione miserevole. Di conseguenza favorendo questi ultimi, tendenzialmente incapaci e fannulloni, verrebbe meno il principio meritocratico, la libera concorrenza su cui si fonda la libertà di mercato, e con essi la ricerca del profitto individuale che sarebbe l’unico reale motore dello sviluppo economico, vero e proprio fondamento della ricchezza delle nazioni e della realizzazione umana. La vulgata dei padroni e dei grandi evasori è pura mistificazione ideologica.
Citando Lenin: «L’onnipotenza della ricchezza è in una repubblica democratica tanto più sicura in quanto non dipende dai singoli difetti del meccanismo politico. La Repubblica democratica è il migliore involucro politico possibile per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito di questo involucro – che è il migliore – fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, né di persone, né di istituzioni, né di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo».
Socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti
Nonostante gli economisti borghesi abbiano dedicato gli ultimi trent’anni a svalutare brutalmente l’intervento pubblico nella «libera» economia di mercato, il capitalismo non ha potuto e non potrà mai fare a meno dell’interventismo statale. La borghesia ha sempre approfittato della nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, lì dove erano necessari grandi investimenti iniziali senza guadagni a breve termine. Quindi nei momenti di crisi economica lo Stato è stato reso ampiamente partecipe al fine di nazionalizzare, ripianare le perdite, ridare ossigeno ai consumi ed evitare i fallimenti. Lo Stato borghese non interviene nell’economia in base ai bisogni della popolazione, ma in base alle necessità del capitale privato. Il suo intervento è tendenzialmente in perdita, di conseguenza vengono lasciati i profitti al grande capitale parassitario, mentre le perdite private vengono socializzate. Dunque l’inevitabile conseguenza è lo sviluppo del debito pubblico e la naturale conclusione di tale circolo vizioso è che l’intervento statale sotto il capitalismo si trasforma in un’altra via per estrarre ricchezza dai lavoratori.
Nazionalizzare/Privatizzare. Cui prodest?
Il capitale finanziario multinazionale si muove come vuole, si sposta cercando di ridurre i costi di produzione, delocalizza, sfrutta territori e persone e migra altrove. Lo scenario si ripete costantemente: uno stabilimento di proprietà d’una multinazionale che ha beneficiato di grossi contributi pubblici, dopo aver estratto il necessario plusvalore, termina la produzione e viene inserito successivamente nella lista delle possibili dismissioni. Ciò rientra nelle normali dinamiche di mercato, ovvero nella logica di accumulazione per capitalizzazione. La privatizzazione in Italia ha dato il peggio di sé, i casi lampanti sono Alitalia, Telecom, Rai, Autostrade per l’Italia, Eni, Ilva, e molti altri. I «capitani coraggiosi» di berlusconiana memoria, ovvero i corresponsabili del disfacimento dell’economia italiana sono i soliti: Colaninno, i De Benedetti, gli Agnelli, i Benetton, Tronchetti Provera, e alcune banche come Banca Intesa, MPS e Unicredit. Sarebbe estatico vederli marcire in carcere, ma non basterebbe. Oltretutto il sistema giudiziario italiano è farraginoso ed elefantiaco, non garantirebbe giustizia, bensì garantirebbe solo l’utile del più forte.
Dunque, l’attuazione concreta dei processi di privatizzazione e delle dismissioni hanno prodotto l’indebolimento complessivo del tessuto e del sistema economico e produttivo e il deperimento della qualità nei servizi pubblici; il peggioramento delle condizioni di lavoro con crescita della precarietà e della disoccupazione; l’incremento delle tariffe e dei costi per i settori popolari.
La fuga perpetua del capitale connaturata alla necessità di massimizzare i profitti ha come unico rimedio possibile la nazionalizzazione dei settori produttivi essenziali, quindi non basterebbe esclusivamente il carcere per i grandi evasori. Nazionalizzare senza indennizzo nell’ottica d’una salvaguardia dell’occupazione e dell’utilità sociale della produzione. Nazionalizzare estirpando le logiche del management privato, garantendo il controllo collettivo degli operai ed evitando una nazionalizzazione isolata che potrebbe creare una sorta di bad company pubblica su cui versare inutilmente ingenti spese statali. Non bisogna ricercare nuovi padroni per le aziende in crisi e i debiti verso le banche devono essere dichiarati nulli, i consigli d’amministrazione devono essere privati di qualsiasi potere sull’azienda. La produzione delle aziende nazionalizzate deve essere indirizzata verso il soddisfacimento dei bisogni della popolazione: le aziende automobilistiche verso la produzione di mezzi pubblici e auto ecologiche, quelle farmaceutiche verso la produzione di medicinali di prima necessità gratuiti, quelle energetiche verso le rinnovabili, quelle edili verso la costruzione di ospedali, case popolari e scuole. L’idea che possa esistere una terza via tra capitalismo e socialismo, ovvero un’economia mista dove settore pubblico e privato convivano fianco a fianco in una reciproca concorrenza, è un’utopia reazionaria.
È necessario ripensare spazi produttivi che seguano la logica dell’autogestione, del protagonismo della classe operaia e della democrazia interna della fabbrica; la necessità di ripensare la tecnologia come mezzo di liberazione (autonomia, autocontrollo, possibilità di modificare e migliorare artefatti e processi) in contrapposizione al suo utilizzo come strumento di oppressione (efficienza e produttività fine a se stesse); e infine la necessità di creare meccanismi circolari che garantiscano la sostenibilità ambientale. Per i singoli padroni ed evasori non basterebbe il carcere, bisogna rovesciare lo stato di cose esistenti.
Marx disse: «C’è un solo modo per uccidere il capitalismo, con tasse, tasse e ancora più tasse».
L’1% della popolazione detiene il 99% circa delle ricchezze mondiali. La schiavitù salariata non è né naturale, né necessaria, né proficua per lo sviluppo dell’umanità stessa. L’enorme abbuffata dei padroni e dei grandi evasori deve terminare. Per produrre non è necessario un padrone, per vivere non è necessario uno Stato.
Gianmario Sabini