Meno di un mese fa il presidente Donald Trump ha twittato: “In Siria abbiamo sconfitto l’Isis”. Il 16 gennaio è arrivata la risposta dell’ISIS: un attacco suicida ha ucciso 19 persone in un ristorante di Manbij, nel nord della Siria. Tra le vittime, quattro soldati americani.
Nel riportare la notizia, il New York Times scrive che “la bomba ha sollevato nuovi interrogativi sulla decisione del presidente Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria”. Senza dubbio l’arrogante tweet di Trump non è piaciuto a nessuno: né agli Stati europei membri della coalizione anti-terrorismo, né agli alleati curdi lasciati soli nelle grinfie di Erdoğan, né, ancor meno, all’amministrazione americana.
Il famigerato tweet ha avuto come effetto quello di incoraggiare e rianimare i miliziani dell’ISIS ancora presenti nell’area, convinti che il ritiro di Trump sia un chiaro segnale di sconfitta dell’Occidente, e di avvicinare i combattenti curdi all’asse Mosca-Teheran, incoraggiando i colloqui di pace con il presidente Bashar al-Assad (lo stesso che per anni ha utilizzato proprio l’ISIS come arma di guerra, fomentando e cavalcando il discorso fondamentalista, per ottenere l’appoggio dei paesi occidentali nella “guerra al terrorismo“).
In effetti sembra che l’unico a gioire (segretamente) di questa decisione sia stato il sultano Erdoğan.
Le tensioni tra Turchia e Stati Uniti non hanno fatto che aumentare a partire dall’annuncio del ritiro americano. La Turchia infatti non vede l’ora di mettere mano alla zona di Manbij, fino ad ora controllata congiuntamente alla coalizione curdo-americana, per assicurarsi che i “terroristi curdi” non assumano il controllo della regione.
L’attacco del 16 gennaio cade proprio a fagiolo: in un articolo pubblicato da Aljazeera il 23 gennaio, il direttore delle comunicazioni del presidente Erdoğan ha sostenuto che l’attacco dimostra l’incapacità (o non volontà) delle forze curde di combattere l’ISIS.
Che fine ha fatto l’ISIS? È ancora presente in Siria
Sembra che tutti gli analisti politici siano d’accordo su un fatto, che si potrebbe riassumere con il detto “non dire gatto se non ce l’hai nel sacco” (tradotto: “non twittare che hai sconfitto l’ISIS se non hai davvero sconfitto l’ISIS”).
È vero che dal punto di vista territoriale l’ISIS è stato fondamentalmente sconfitto: Raqqa e Mosul, le due capitali del califfato proclamato nel 2014, sono state riconquistate entrambe nel 2017 e, secondo un portavoce curdo, in meno di un mese le forze curde (le uniche impegnate nel combattimento a terra contro l’ISIS) saranno in grado di prendere il controllo degli ultimi villaggi controllati dall’ISIS sul confine iracheno.
Tuttavia, dichiara lo stesso portavoce, gli attentati terroristici dell’ISIS contro le forze armate curde non faranno che aumentare dopo la fine della presenza militare del califfato.
Sconfiggere militarmente il califfato dell’ISIS significa aver sconfitto il terrorismo? Questo è il dilemma.
La risposta è no.
Il perché ce lo spiega molto bene Francesca Mannocchi, giornalista autrice di Isis tomorrow. The lost souls of Mosul. Il documentario girato a Mosul nel 2017, dopo la riconquista della città irachena, indaga il destino degli ex-affiliati dell’ISIS. Non tanto dei miliziani, quanto dei bambini e delle donne, figli e mogli di quei miliziani.
“Che cosa ne sarà di questi giovanissimi arruolati per il martirio?”
“Ne dovranno uccidere più che possono, che altro fare.”L’idea del documentario, spiega la Mannocchi, è nata da una conversazione con un amico iracheno.
Secondo la Mannocchi i bambini sono le armi per la futura vittoria dell’ISIS, i “semi della guerra” che stanno già crescendo nelle teste dei sopravvissuti, nonostante le sconfitte militari. Nati e cresciuti in un contesto dove la realtà quotidiana è fatta di ritorsioni, vendetta e stigmatizzazione sociale, non conoscono un mondo diverso. Soprattutto oggi, dopo la caduta di Mosul, i figli dei miliziani vengono umiliati e discriminati nelle tendopoli, dove non ricevono aiuti umanitari e non vanno a scuola.
E così le madri (parliamo spesso di giovani tra i 16 e i 20 anni, come Nour, una delle protagoniste del film), orfane e vedove di miliziani dell’ISIS, che vivono nel lutto per i cari morti da martiri, inconsapevolmente garantiscono la sopravvivenza del discorso estremista reclutando i propri stessi figli.
«La paura non può che generare desiderio di vendetta» sostiene Mannocchi.
Uno studio delle Nazioni Unite condotto sui bambini yazidi rapiti dall’ISIS, mette in luce le tecniche di “riprogrammazione emozionale” utilizzate per il loro indottrinamento. La continua esposizione a esecuzioni, fustigazioni e amputazioni ha come primo risultato la desensibilizzazione alla violenza. Dopo l’esposizione subentra poi la partecipazione alla violenza stessa, presentata ai bambini come un onore e un segno di appartenenza al gruppo.
Ma il problema non è solo il lavaggio del cervello: disinnescare queste bombe a orologeria è solo il primo passo verso la deradicalizzazione. Il fondamentalismo ha cause più antiche e profonde, che spesso il mondo occidentale tende a ignorare. «Noi siamo cresciuti credendo in questo» dice Nour.
«Ieri si chiamava al-Qaeda in Iraq, oggi si è chiamato Isis, domani forse si chiamerà in un altro modo, ma il fondamentalismo di oggi è nato sulle ragioni medesime di quello di ieri e stiamo rischiando di far crescere una nuova generazione di fondamentalisti sulle stesse identiche ragioni»
Francesca Mannocchi in un’intervista su La7.
«L’Isis è nato dalle ceneri di al-Qaeda in Iraq», è nato da un gruppo di miliziani che si sono radicalizzati nelle prigioni irachene e americane di Abu Ghraib e Camp Bucca, a partire dal 2003. Secondo le Nazioni Unite oggi ci sono ancora 20.000 miliziani sparsi in Medio Oriente, per non parlare dell’eredità ideologica nelle menti dei bambini.
“Se non capiamo che l’organizzazione ha dato una risposta a questioni importanti e profonde nella vita delle persone, continueremo ad assistere alla rinascita di altri gruppi come l’Isis, di nuovi fondamentalismi” conclude Francesca Mannocchi.
Claudia Tatangelo