Edward Snowden, il whistleblower che nel 2013 ha denunciato il sistema di sorveglianza della NSA (National Security Agency), aveva ragione. A inizio settembre, infatti, la Corte d’appello per il nono circuito (la più grande delle tredici corti d’appello degli Stati Uniti, con sede a San Francisco), ha emanato una sentenza dichiarando illegale il programma di sorveglianza di massa messo in piedi dai servizi d’intelligence statunitensi. Forse tra le più esplosive delle rivelazioni di Edward Snowden, pubblicate sul Guardian e il Washington Post nel 2013 da Glenn Greenwald e Laura Poitras, il vasto database di registrazioni telefoniche statunitensi segretamente costruito dalla NSA sembrerebbe aver violato il Foreign Intelligence Surveillance Act (Fisa, espanso dopo l’11 settembre 2001 attraverso il famigerato Patriot Act) e persino la Costituzione.
Ma questo è solo uno degli innumerevoli programmi di sorveglianza di massa e globali della NSA e alleati (Five Eyes e non) che Edward Snowden ha rivelato sette anni fa: operazioni come Stellar Wind, PRISM (sorveglianza elettronica attraverso le big tech come Microsoft, Google e Apple), Tempora (effettuata dal GCHQ, i servizi d’intelligence britannici, e condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2018), o il data mining per effettuare sorveglianza retroattiva sono alcuni degli scandali di sorveglianza illegale che i vertici statunitensi (la NSA, la CIA, e anche Obama) hanno strenuamente difeso ingiustificabilmente in chiave anti-terrorismo e su cui hanno spudoratamente mentito. Programmi che hanno spiato anche noi italiani e di cui non sapremmo nulla se non fosse stato, appunto, per Edward Snowden. Per questo è necessario ripensare l’equilibrio tra sicurezza e libertà, abbandonando l’idea che per tutelare la sicurezza si debba sorvegliare (illegalmente) il mondo intero ed evitando di cadere nel determinismo tecnologico per il quale se le tecnologie di sorveglianza sono effettivamente in grado di raccogliere in massa e continuamente dati su di noi, allora è giustificato il loro uso.
Oggi in esilio in Russia e accusato in patria di spionaggio secondo l’Espionage Act del 1917, Edward Snowden ha manifestato su Twitter la sua soddisfazione per la sentenza, incredulo di poter vedere il giorno in cui gli hanno dato ragione, sebbene sette anni dopo. Alla luce di questi sviluppi, la questione della grazia presidenziale, già presente nel dibattito pubblico da anni, si è ripresentata con forza: Donald Trump ha dichiarato che prenderà in considerazione di concedere la grazia a Snowden, nonostante in passato lo abbia definito un «traditore» e una «spia che dovrebbe essere giustiziata».
Whistleblowing e giornalismo
Il whistleblower indica una persona che, essendo in possesso di informazioni riservate nocive per la collettività, decide in nome dell’interesse pubblico di denunciarle alle autorità o ai media. Questo è il caso di Edward Snowden: «Il mio nome è Edward Joseph Snowden. Lavoravo per il governo, ma ora lavoro per il pubblico», si può leggere nella sua autobiografia uscita nel 2019. Ma la definizione riguarda molti altri che negli ultimi anni hanno portato alla luce gravi casi di abuso di potere, violazione di diritti civili o di evasione fiscale, tutti temi che non erano mai stato affrontati in maniera simile, nonostante il whistleblowing come pratica democratica per la circolazione di informazioni e la supervisione pubblica (public oversight) non sia affatto nuovo, intrecciandosi con il giornalismo e l’attivismo politico.
È infatti la tecnologia digitale ad aver permesso ai whistleblower di mettere in campo nuove tattiche e un ventaglio strategico più ampio, come ad esempio l’uso di tool per comunicazioni crittografate. L’ultimo libro di Philip Di Salvo, Digital Whistleblowing Platforms in Journalism. Encrypting Leaks (Palgrave Macmillan), analizza lo spettro delle piattaforme di whistleblowing digitale sorte negli ultimi anni (tra cui WikiLeaks) che permettono una comunicazione confidenziale e sicura con la fonte, e propone una tassonomia secondo le modalità in cui queste piattaforme gestiscono l’intero processo, dalla fuga di notizie (leak) fino al rilascio dei contenuti.
Come dimostra la vicenda di Edward Snowden, gli informatori, nel momento in cui denunciano ai media le informazioni, corrono grandi rischi, ed è dovere dei giornalisti proteggere nel migliore dei modi le loro fonti, affinché la relazione tra whistleblower e giornalista sia una situazione win-win per entrambe le parti. Proprio perché i leak evidenziano un grande problema di mancanza di trasparenza per le istituzioni democratiche e sono sempre più vitali per svelare vicende di interesse pubblico, le organizzazioni giornalistiche devono mettersi nelle condizioni di affrontare la denuncia, i suoi pericoli e l’intero processo nel modo migliore possibile per le parti coinvolte. A questo fine, sono state elaborate delle linee guida per lavorare con whistleblowers in ambito giornalistico nell’era digitale, incarnate nei 12 Principi di Perugia.
Tra social media, metadati e capitalismo della sorveglianza: è troppo tardi?
Il nostro rapporto con Internet, i social media e la privacy è radicalmente cambiato grazie a rivelazioni come quelle di Edward Snowden, il cui contributo ci ha aiutati a comprendere le potenzialità del web come strumento di controllo e sorveglianza anche per i governi democratici. Tuttavia, comprendere queste dinamiche è solo il primo passo per tentare di liberarcene.
Infatti, la professoressa Shoshana Zuboff, nel suo libro Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (Luiss, 2019), descrive l’ascesa di un nuovo tipo di potere aziendale, basato su pratiche di sorveglianza digitale senza alcun precedente e promosse dall’industria pubblicitaria globale, che ha dato alla luce un nuovo ordine economico, il capitalismo della sorveglianza. Fornendo servizi digitali gratuiti, questa variante estrae dall’esperienza umana dati comportamentali che solo in parte sono destinati al miglioramento del servizio in questione. Il resto è definito surplus comportamentale e viene utilizzato per produrre previsioni commerciabili su ciò che faremo in futuro su internet. Questo mercato di futures comportamentali è quello che ha permesso enormi profitti alle aziende della sorveglianza, il cui pioniere è stato Google. Così, la logica di accumulazione ha come perno della trasformazione dell’investimento in profitto la sorveglianza: l’economia basata sui nostri dati, sulla loro estrazione, previsione e vendita, produce al contempo pubblicità personalizzate e sorveglianza di massa, facce della stessa medaglia che soddisfa i consumatori, le aziende e i governi.
Appurata l’esistenza delle dinamiche perverse del capitalismo della sorveglianza (sebbene il capitalismo senza altre connotazioni sia di per sé ontologicamente perverso, estraendo e sfruttando tutto il possibile per la propria riproduzione), dobbiamo anche fare i conti con due aspetti spesso lasciati in secondo piano: la cultura della sorveglianza e il realismo della sorveglianza. Coniata dal sociologo David Lyon, per cultura della sorveglianza si intende la trasformazione della sorveglianza da qualcosa di esterno che ricade sulle nostre vite a un modo di vivere interiorizzato, in una realtà quotidiana dove ciascuno di noi, volente o nolente, è allo stesso tempo controllore e controllato, confrontandosi con e perpetuando pratiche di sorveglianza. Ed è proprio in seguito alle rivelazioni di Edward Snowden che la cultura della sorveglianza si è resa evidente.
Questa interiorizzazione e normalizzazione della cultura della sorveglianza ha trasformato le sue infrastrutture digitali in “senso comune”, diffondendo un immaginario sociale intriso di rassegnazione all’estrazione di dati, nonostante i sentimenti di disagio e consapevolezza dei suoi effetti. Questa rassegnazione pervasiva limita le possibilità di immaginare alternative ed è quella che la professoressa Lina Dencik definisce realismo della sorveglianza, facendo riferimento al concetto di realismo capitalista di Mark Fisher: «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo».
Infatti, le reazioni del grande pubblico al Datagate di Edward Snowden non hanno trasformato l’immaginario sociale, né hanno messo radicalmente in discussione i meccanismi di estrazione di dati che pervadono le nostre società digitali, limitandosi a cercare di mitigare gli effetti più dannosi della dataficazione. La sfida sarà quindi quella di riappropriarci della nostra capacità di immaginazione, rigettando la retorica dell’inesistenza di un’alternativa, e di ri-concettualizzare il valore dei nostri dati, riaffermando le possibilità di organizzare in modo diverso la nostra società.
Augusto Heras