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Fonte immagine: Reuters

Pochi giorni fa sono stati nominati gli ultimi undici segretari di Stato del nuovo governo francese (composto da quarantatré membri, un vero record) voluto dal presidente Macron dopo la disfatta delle elezioni locali di un mese fa. La svolta che è costata il posto al premier Edouard Philippe e ha insediato Jean Castex si è consumata subito, all’indomani del crollo del partito del presidente, La République en Marche: i Verdi avevano schiacciato la maggioranza di governo nelle più importanti realtà amministrative di Francia e costretto Macron ad accelerare una decisione che aveva preso da tempo.

Macron, Philippe e Castex

Aveva superato il presidente nei sondaggi, l’ex premier; era diventato un personaggio politicamente ingombrante a prescindere, che in fondo Macron meditava di esautorare sin dall’inizio dell’emergenza Covid. Il governo uscente aveva portato avanti riforme complicate e dibattute come quella, famigerata, delle pensioni, che sono costate diversi consensi a Macron in tutta la Francia, ma non al premier Philippe.

Quest’ultimo, figura apprezzata per energia e aplomb nella gestione dell’epidemia da coronavirus, nonostante il tonfo del partito del presidente alle amministrative viene ancora reputato in gradodi candidarsi alle prossime presidenziali, grazie a un buon bacino di voti nella destra moderata (cui Macron ha sempre guardato per consolidarsi). Per l’ultimo scorcio del mandato, il presidente aveva quindi bisogno di una spalla politica meno ingombrante, che portasse, soprattutto, successi immediati in una fase interna e internazionale molto complessa per la Francia: la scelta è caduta su un’altra figura nata nel bacino della destra moderata, ma meno affermata da un punto di vista personale e mediatico.

Jean Castex è appunto il prototipo del funzionario efficiente e affidabile, che ha aumentato la propria considerazione pubblica grazie a una finora abbastanza sapiente (nonostante la recente recrudescenza dei contagi) gestione della fase 2 post-lockdown. Per l’attuazione delle misure per il rilancio dell’economia e delle politiche sociali che Macron ha in mente in vista dell’autunno, che si annuncia caldissimo, un profilo come Castex può essere utile per ottimizzare l’aspetto gestionale della crisi.

La “marea verde” e la svolta eco-solidale

La “marea verde” delle ultime amministrative, che alcuni ritengono frutto di una sterzata della Francia verso una nuova idea di sinistra (quella “vecchia” di fatto è ancora spaccata e tormentata, per quanto sia riuscita a tenersi Parigi), è avanzata inesorabile. Macron l’aveva in qualche modo prefigurato e aveva cominciato a calcare maggiormente i toni sulle problematiche ambientali e sociali sin dalla fine di giugno.

La Commissione dei cittadini per il clima è stato un esempio per molti versi apprezzabile di democrazia partecipativa, cui faranno seguito (se confermati) i 15 miliardi di euro per contrastare gli effetti dei cambiamenti climatici. È evidente come Macron abbia deciso di recuperare almeno una parte del consenso perso in questi mesi su temi che non sono stati dimenticati in Francia, nonostante la pandemia. A questo poi si aggiunge una maggiore attenzione ai problemi delle diseguaglianze e dell’esclusione sociale, definite negli ultimi discorsi presidenziali delle vere e proprie piaghe ulteriormente messe a nudo dalla pandemia.

È proprio alle fasce deboli della popolazione, peraltro, che Macron intende far rivolgere Castex, che molti definiscono particolarmente gradevole grazie alla sua affabilità da “uomo medio” del sud. Una riapertura sul tema delle pensioni, poi, è l’ulteriore tasto su cui batte il Macron dopo la disfatta alle amministrative: con l’autunno rovente che attende la Francia, una mossa che potrebbe pagare in termini di consenso e che il presidente ha già in parte svelato dovrebbe essere la rivisitazione di alcuni criteri della riforma previdenziale e del suo odioso sistema a punti.

La politica estera: “cattive amicizie” ed europeismo interessato

Pur se in Francia soffre, fuori dai confini nazionali Macron cerca di affermare la propria leadership su vari fronti, in bilico tra qualche “cattiva amicizia” e un europeismo che, soprattutto negli ultimi giorni, ha cercato di dimostrare soprattutto in sede di discussione del Recovery Fund. Si tratta in realtà di due facce della stessa medaglia di una politica estera che, senza un reale consolidamento interno, fa fatica a mettersi in marcia sui binari desiderati e a risultare pienamente credibile.

In Africa, si sa, la Francia è sempre stata particolarmente influente, soprattutto nel “giardino di casa” ex coloniale, come dimostra la recentissima presenza di Macron (in piena crisi politica in Francia), al G5 dei Paesi del Sahel. La fascia sahariana è strategica per Parigi per petrolio e gas, contrasto al terrorismo e all’immigrazione clandestina. È però il contesto della Libia quello in cui, si sa, Macron sta puntando particolarmente negli ultimi mesi in maniera piuttosto discutibile: ancora non è chiaro se ufficialmente la Francia spalleggi davvero Khalifa Haftar; l’approccio alla questione libica viene discusso da personaggi autorevoli come il famoso polemista Bernard Henry-Levy (che ha attaccato apertamente il presunto sostengo di Macron al comandante delle milizie cirenaiche).

L’influenza della Francia in Libia si accompagna a un crescente rapporto con la Russia (in funzione antiturca e sulle ceneri della NATO, di cui da tempo Macron denuncia l’inutilità): Putin ha stretto più di un legame con Parigi su diverse questioni, anche economiche e specialmente nel settore energetico: Mosca è entrata infatti a far parte di un nuovo progetto di ricerca sul nucleare pulito con sede proprio in Francia e a cui partecipa anche l’Unione Europea. Putin ha espresso pubblicamente la propria gratitudine nei confronti di Macron, consolidando così l’immagine di un riavvicinamento progressivo all’Eliseo che al presidente non può certo dispiacere.

Tuttavia, seppur sia plausibile che il rilancio dell’economia francese passi anche per una relazione più stretta con la Russia (che a sua volta intende sfruttare la Francia come testa di ponte per entrare di più in Europa), per assecondare le politiche sociali che ha in mente Macron c’è bisogno dell’Unione Europea. Così si spiega, forse, l’atteggiamento particolarmente accalorato del presidente per raggiungere finalmente l’accordo sul Recovery Fund: la Francia ha svolto un ruolo apparentemente deciso e muscolare nei confronti del fronte dei “frugali” e, schierandosi coi Paesi del sud, si è scontrata a viso aperto specialmente con l’austriaco Kurz e con l’olandese Rutte (nell’occasione accusato di aver recitato la “parte” dei britannici pro-Brexit).

Forte, però, del sostegno di Angela Merkel, Macron ha conseguito quella che appare come una vittoria politica europea di valore: alcuni commentatori sottolineano che la diminuzione del valore complessivo degli interventi è stato però accompagnato dall’imposizione ai “frugali” della garanzia a mezzo del bilancio UE del debito comune emesso dalla Commissione. Si è trattato dunque dell’occasione per un nuovo consolidamento dell’immagine continentale della Francia (che nell’occasione ha recuperato la stima dell’Italia), troppo spesso accusata di fare soltanto gli interessi propri e non quelli comunitari.

La ripresa del consenso interno passa anche per il ripristino di una positiva immagine internazionale e per un recupero della fiducia nel peso della Francia in Europa: un passaggio decisivo, questo del nuovo europeismo, per andare incontro all’elettorato moderato che oggi appare parecchio diminuito e che, attraverso le politiche ambientali e sociali e la capacità di mediazione di Castez, Macron tenterà da qui a due anni di riconquistare, per non cederlo alla Le Pen o a qualche altro nome nuovo del centrodestra.

Ludovico Maremonti

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