In politica, è risaputo, lo stile è sostanza: gli effetti sui mercati delle sconsiderate dichiarazioni di Christine Lagarde, governatrice della Banca Centrale Europea (BCE) succeduta a Mario Draghi, ne sono dimostrazione plastica.
Se “le parole sono importanti”, Nanni Moretti docet, i fatti sono tutto: al di là dei vertici che la rappresentano, appare lapalissiano quanto l’Europa (N.B., l’Unione Europea) non sia in grado di affrontare i momenti di crisi socio-economica che la attraversano da decenni e di trasformarsi di conseguenza.
Alla luce delle sfide gravose che attendono le istituzioni europee nei giorni infausti del Coronavirus, che si accumula ad una pila di altre criticità irrisolte, lo “stallo di Bruxelles” non è davvero più sostenibile.
Dalla politica economica di Draghi alla gestione tecnocratica di Lagarde
La gestione della BCE di “Super” Mario Draghi, può essere riassunta in un’espressione efficace e diretta, quasi perentoria: «whatever it takes». Ormai, celeberrima, rappresenta molto più di un motto di spirito, ma una dichiarazione di interventi diretti con un preciso indirizzo di politica economica. L’esempio più eminente, è stato sicuramente il quantitative easing: una misura straordinaria, di oltre 2.600 miliardi, che ha previsto l’acquisto di titoli di Stato di nuova emissione e di altri titoli di debito per salvaguardare finanziariamente le economie più fragili, nell’ambito della crisi dell’Euro e del 2011.
Insomma, Draghi ha interpretato il ruolo della BCE in senso eminentemente politico e sistemico: salvaguardare la politica monetaria dell’Eurozona, servendosi di ogni mezzo, è stato il faro a guida delle sue azioni, che hanno probabilmente contribuito a salvare i destini dell’Unione Europea. Nel suo ultimo discorso come governatore ha sentenziato: «Ci serve un’Europa più forte», una sua dichiarazione forse meno nota, ma ancora più significativa, che sottace un’esortazione abbastanza chiara. Come a dire, tra le righe, che si è fatto il massimo, ma non sarà sufficiente.
Le dichiarazioni di Draghi sono state parte del suo successo, che ha lasciato un’eredità significativa, pur divisa tra critici ed entusiasti. In questo senso, il passaggio del timone dell’Eurotower a Christine Lagarde, ex-ministro della Repubblica Francese ed ex-direttrice del Fondo Monetario Internazionale dal curriculum giuridico di primo piano, è avvenuto come scelta in discontinuità “di equilibrio” rispetto al predecessore: un profilo maggiormente tecnocratico, e comunque di mediazione tra “falchi e colombe”.
Tuttavia, i dossier sul tavolo della BCE dimostrano che scelte politiche e di visione, anche divisive, non sono ulteriormente procrastinabili: dalle guerre commerciali, all’impatto del rallentamento della crescita europea, fino alla Brexit, ed in ultimo alle sfide che il Coronavirus ha repentinamente posto in essere. Il ruolo della maggiore istituzione finanziaria europea non può essere quella di “guardiana dei conti” e dello status quo per i prossimi otto anni.
La gaffe di Lagarde non è un inciampo comunicativo, ma linea politica
A pochi mesi dalla sua nomina, in parallelo alla nuova Commissione Europea, la prova delle sfide che attendono la BCE di Lagarde non hanno atteso a manifestarsi: come accennato poc’anzi, l’esplosione dell’epidemia Covid-19 in Italia, finora colpevolmente trascurata dagli altri Paesi europei, ha posto problematiche socio-economiche pressanti, che necessitano invece di risposte di respiro comunitario. Ebbene, come ha reagito Francoforte?
L’istituzione guidata da Lagarde non ha saputo innanzitutto predisporre un quadro di misure soddisfacente e commisurate all’emergenza, che investirà non solo l’Italia ma tutto il continente: il pacchetto di sostegno per imprese, banche e famiglie della BCE, è stato sì ispirato alla sostenibilità di lungo periodo, ma si è rivelato al di sotto delle aspettative dei mercati, con conseguente effetto boomerang, e in generale privo di misure ambiziose e “shock”, necessarie più che mai in tali frangenti.
Ma non solo. Durante la conferenza stampa succedanea al varo delle suddette misure di supporto, Lagarde si è abbandonata a dichiarazioni quantomeno infelici: «Noi non siamo qui per accorciare gli spread. Non è questa la funzione né la missione della BCE. Ci sono altri strumenti e altri attori deputati a queste materie». Nulla di più sbagliato: come Draghi aveva dimostrato, la Banca Centrale ha tutte le potenzialità, se non la mission, di tenere sotto controllo i differenziali tra i titoli di Stato dei Paesi membri. La gaffe di Lagarde ha comportato l’aumento dei tassi d’interesse e una naturale migrazione degli investitori dall’Italia in Paesi percepiti come più sicuri, provocando un’impennata dello Spread e il tonfo della Borsa di Piazza Affari.
Si dice che il silenzio è d’oro, ma la parola è d’argento. A giudicare dai risultati, sarebbe stato dunque auspicabile che la nuova presidentessa avesse optato per il bene rifugio per eccellenza: nonostante abbia prontamente ritrattato in un’intervista alla CNBC, rendendosi disponibile a fare tutto il possibile per impedire la frammentazione dell’Eurozona. Cionondimeno, l’impietoso giudizio sul suo operato è stato finora unanime, ed ha trovato concordi tanto gli europeisti più convinti quanto gli euroscettici più infervorati. Addirittura il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una nota del Quirinale inconsuetamente aspra, ha indirettamente rimproverato le dichiarazioni di Lagarde, “ostacolo” alla “solidarietà europea”.
Europa, madre e matrigna
Christine Lagarde sposa una linea politica chiara, ispirata al rigorismo mitteleuropeo di banchieri come Jens Weidmann (banchiere centrale tedesco, primo sponsor della transalpina ex-FMI). Si tratta di un modello economicamente fallimentare e anti-solidaristico, tra le principali cause della crisi morale e materiale dell’UE, ancora tragicamente in ritardo rispetto alla contemporaneità.
Questo background rende Lagarde un capro espiatorio perfetto, fin troppo. Eppure sarebbe semplice e semplicistico, nonché liberatorio, attribuire tutte le colpe al nuovo vertice della BCE. Le disfunzioni delle attuali istituzioni europee sono sistemiche e politiche, e prescindono dagli stessi indirizzi che l’inquilino dell’eurotower può scegliere di imprimere. Proprio nei momenti di incertezza senza precedenti scaturiti dalla pandemia Covid-19, non si può essere eccessivamente critici con Lagarde, che, seppure in ritardo, ha promesso di acquistare ben 750 miliardi di euro di titoli pubblici e privati (un nuovo quantitative easing ispirato all’operato di Draghi, in sostanza).
Lo stesso discorso vale per le significative promesse di sostegno economico della Commissione Europea di Ursula von Der Leyen a proposito del Coronavirus: entrambe segnano forse la buona volontà delle intenzioni dell’UE, e significano ricadute positive sulla situazione cogente. Tuttavia se tali misure non si protrarranno sul lungo periodo, e non si faranno coordinamento sistemico, non basteranno.
Sarebbe prezioso, in quest’occasione, ripensare alle prerogative della Banca Centrale Europea, secondo il modello della Federal Reserve Americana: la possibilità di impostare una politica economica di più ampio respiro, meno ancorata al semplice controllo finanziario della moneta e più connesse agli investimenti e quindi ai sistemi produttivi dei paesi membri, ad una visione di sviluppo comune, anche al di fuori degli stati di emergenza e di eccezionalità.
Se ne è spesa di retorica sul “sogno di Altiero Spinelli”: è risaputo, i sogni che rimangono sempre tali sono incubi. Eppure, la costruzione di Europa prestante democraticamente ed economicamente e dagli orizzonti comuni non è una visione utopica, bensì una necessità sempre più improrogabile.
Tocca ancora una volta constatarlo: la sospirata unione politica non è al centro dell’agenda pubblica di nessun Paese, non conosce progettualità univoca, e neppure le premesse basilari per concretizzarsi. Si parla di qualcosa di molto preciso, e ben poco astrattamente onirico: il passaggio da farraginosa macchina tecnocratica a carattere intergovernativo a una funzionale federazione di Stati, con istituzioni democratizzate e rinnovata agibilità internazionale. L’Europa deve tornare ad essere madre per non essere matrigna. Uscire dallo “stallo di Bruxelles” è ancora la prima emergenza.
Luigi Iannone