I 300 milioni di persone a cui dà lavoro, fanno dell’industria dell’abbigliamento uno dei principali settori produttivi e di impiego. Gli 1,2 miliardi di tonnellate di CO2 emesse a livello globale ogni anno, invece, la rendono uno dei settori più inquinanti al mondo. Per non parlare della pressione, enorme, che la filiera del tessile esercita sulle risorse naturali: a meno che non sia stata realizzata in cotone sostenibile, per produrre la vostra t-shirt preferita sono stati impiegati all’incirca 2700 litri di acqua ed emessi 17 kg di CO2 per ogni chilogrammo di tessuto. Per intenderci, la stessa quantità d’acqua che una persona berrebbe in un arco di tempo di circa 1350 giorni viene consumata per coltivare il cotone necessario alla fabbricazione di una singola t-shirt dal peso di 250 grammi.
Quando si parla di cotone si incorre facilmente nell’errore di ritenerlo una sostanza pura solo perché si ricava da una pianta. Quello che si ignora è che, pur essendo una fibra naturale, il cotone richiede enormi quantità d’acqua trattandosi di una pianta idrovora e che il trattamento del cotone tradizionale richiede l’impiego di migliaia di tonnellate di sostanze chimiche che, riversate sui campi, riducono la fertilità dei suoli, alterano la loro salinizzazione, contribuiscono alla perdita di biodiversità e inquinano le acque. Quella che sembrava una sostanza pura e naturale, dunque, si rivela una sostanza potenzialmente tossica per il nostro ambiente.
L’insostenibilità delle piantagioni di cotone è aggravata ulteriormente dall’esplosione del fenomeno della fast fashion, un modello di produzione e consumo di massa basato sia sull’offerta incessante di nuovi capi d’abbigliamento venduti a prezzi stracciati, sia sulla spinta all’acquisto compulsivo. Questa tendenza a considerare l’abbigliamento come un prodotto usa e getta si è andata accentuando progressivamente, provocata – almeno in parte – dall’aumento della domanda da parte di una classe media in crescita in tutto il mondo e con un reddito disponibile più elevato. In particolare, negli ultimi 15 anni mentre il numero di capi di abbigliamento prodotti è quasi raddoppiato, il loro tempo di impiego medio si è ridotto sempre di più.
Nel mezzo di un simile scenario, l’iniziativa recentemente promossa dall’associazione commerciale statunitense COTTON USA può essere un primo passo per ridisegnare un modello di business più attento ai valori della sostenibilità e della biodiversità. Sei sono gli obiettivi che l’associazione che produce cotone sostenibile intende realizzare entro il 2025:
• Aumento della produttività del 13%, con una riduzione dello sfruttamento della terra per ogni libbra di fibra;
• Aumento del 18% dell’efficienza di irrigazione;
• Riduzione del 39% dell’emissione dei gas serra;
• Riduzione del 15% nella spesa per l’energia;
• Riduzione del 50% dell’inquinamento del suolo;
• Aumento del 30% del carbonio nel suolo.
Per riuscirci sono stati creati – ad esempio – dei veri e propri corridoi all’interno dei campi e delle zone cuscinetto, che con essi confinano, in cui viene favorita la crescita di varie piante native. In questo modo si costituisce un habitat naturale che attira la presenza di farfalle, quaglie, talvolta di animali di taglia più grande come i cervi ma che, soprattutto, permette alle api e agli altri insetti impollinatori di prosperare, migliorando così la qualità delle aree adiacenti coltivate a cotone.
Inoltre, i coltivatori di cotone sostenibile stanno adottando sempre più frequentemente tecniche di lavorazione no-till nonché colture di copertura, che hanno entrambe un impatto molto positivo sulla biodiversità e sulla salute del suolo. I sistemi no-till, infatti, migliorano la struttura del suolo lasciandolo intatto. Il fatto di non lavorare il terreno migliora anche la sua ritenzione di carbonio, riducendo l’impatto dei gas serra derivanti dalla coltivazione del cotone. In combinazione con queste pratiche di lavorazione minima, l’uso di colture di copertura contribuisce anche a sequestrare maggiori quantità di anidride carbonica dall’atmosfera. Le colture di copertura, inoltre, sono enormemente benefiche per la biodiversità e la salute del suolo anche perché, fornendo ombra, diminuiscono il fenomeno dell’evapotraspirazione. In questo modo, non solo si riduce la quantità di acqua necessaria a irrigare i campi, ma anche l’erosione a cui tendono a essere soggetti i suoli.
I benefici economici a catena derivanti da una produzione di cotone sostenibile stanno inducendo un numero crescente di coltivatori statunitensi ad aderire all’iniziativa promossa nell’ambito dello U.S. Cotton Trust Protocol. Ma solo quando ogni singolo consumatore prenderà atto dell’insostenibilità del sistema, che le sue stesse scelte di consumo hanno contribuito a creare, sarà possibile innescare un cambiamento radicale. Un cambiamento che sostituisca quei bisogni fittizi creati dal mercato con la consapevolezza che anche l’outfit che scegliamo ha un impatto sul Pianeta che abitiamo.
Virgilia De Cicco